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“Sono andato a Barcellona.”
“Wow! Hai visto la Sagrada Familla?”
“Ehm… no”
“il Camp Nou?”
“Mmm…”
“Le case di Gaudi?”
“Ecco…”
“Ma insomma, che diavolo hai fatto?”
Vallo a spiegare all’amico che non ha mai visto un concerto in vita sua che cos’è un festival musicale. E vagli anche a spiegare perché te ne vai a Barcellona per stare tre giorni in un enorme spazio di cemento in cui si suona dalle quattro del pomeriggio alle sei del mattino. Me ne torno in Spagna quindi, quasi un anno dopo il fantastico Benicàssim 2005. Niente campeggio gratuito, non è previsto. Anche questa volta, la compagnia di melomani è assai nutrita e ci fa andare tutti in una casa del centro di Barcellona. Una vacanza nella vacanza. Una vacanza a ritmo di musica, in maniera totale. Non solo per il festival, ma per tutto il contorno. A cinque minuti dal nostro appartamento c’è una via dove ci sono solo negozi di dischi. E i dischi, in Spagna, costano pochissimo. Un mio amico ha comprato “Rathed Ripped” dei Sonic Youth, appena uscito, a 13 euro. A vedere i prezzi dei nostri negozi, non ci si crede. Eppure è così. Per la Spagna, la musica pop è una vera istituzione. il che spiega come mai i festival più importanti sono considerati degli importantissimi eventi culturali. Ci si chiede quando sarà possibile vedere, in italia, una cosa del genere. Certo, Frequenze Disturbate e Spaziale Summer si avvicinano, ma qui è tutt’un altra cosa. Big Star, Flaming Lips, Dinosaur Jr., Motorhead, Violent Femmes, Mogwai, Stereolab, Yeah Yeah Yeahs, Yo La Tengo eccetera eccetera. Tutti assieme. E quando ti ricapita una cosa del genere? In Spagna a Benicàssim, ovviamente. O in Inghilterra, ma quello è un altro discorso. Due modi altri di intendere la musica, troppo lontani da quello italiano. Logico quindi emigrare per un fine settimana e godersi una risma di grandi concerti.
Le premesse
Quando frequenti un festival devi renderti conto di alcune cose. Non dormi. Mangi poco. Bevi poco. il cibo costa tantissimo e fa mediamente schifo. La birra è quella che sponsorizza il festival. Una pinta di Estrella Damm costa 2 euro – ma è più piccola di una nostra bionda piccola – e il business è enorme. Ma devi fare parecchie scelte. Ad esempio: spreco mezz’ora in coda al bar per bere o vado a guadagnarmi la prima fila per il concerto X? Poi c’è il problema dell’igiene. Nel Fòrum non c’è un posto per lavarsi le mani e dopo aver fatto l’ennesima pisciata nel bagno chimico di turno, non è il massimo. Ma questi sono problemi minori. Una volta entrato nell’ottica del festival, diventa tutto automatico. E come lo sai tu, lo sanno anche le tue gambe. Ti reggono in piedi per tre giorni senza dire niente, per poi distruggersi nel momento esatto in cui si mette piede sul pullman per l’aeroporto.
Giovedì 1 Giugno
Il Parc del Fòrum è un enorme spazio fieristico in riva al mare. Ci si arriva con la metropolitana e puoi notare il fantastico stacco tra la città – che fuori dai cancelli continua la sua vita di tutti i giorni – e l’esercito di giovani europei che vive i suoi orari sballati muovendosi in massa tra i palchi e i banchetti di questa enorme distesa di cemento. Nemmeno il tempo di ambientarsi e cominciano i concerti. i primi a salire sul palco Fira – il minore, dove suonano soprattutto gruppi spagnoli – sono gli Stay, esordienti dediti ad un guitar-pop figlio della british invasion degli anni ’90. Tra brani originali e cover – “Making Time” dei Creation, “September Gurl” dei Big Star, “Chicago” di Graham Nash – il set va via tranquillo e con punte di divertimento. Dopo un po’ di sottofondo di gruppi non esattamente eccelsi e un giro tra le bancarelle discografiche, arriva il momento dei The Drones – palco Vueling – una noise-rock’n’roll band che non regala niente se non un po’ di sana caciara che finisce per annoiare quasi subito. Non che sul Danzka le cose vadano meglio, i Castanets sembrano la personificazione del tedio, ed ascoltare quel pop malinconico e venato di pretese post-rock è forse l’ultima cosa di cui sento la necessità. Molto meglio chiacchierare un po’ e osservare le funanboliche esibizioni dei già ubriachi inglesi. Almeno fino all’inizio dei Motorhead, che preferisco ad una fin troppo fuori contesto No-Neck Blues Band. Ora, i Motorhead. Che cosa diamine ci fa un gruppo coatto come quello di Sua Santità Lemmy in mezzo ad un cartellone di indie-star è ancora un mistero, ma non è importante. Questo perché il power-trio mette in scena un set di puro ed energico rock’n’roll. Tutto uguale, tutto stereotipato, tutto bellissimo. Un’ora e mezza ai 200 km/h e a volumi altissimi, con Lemmy Kilminster – sessantuno primavere – ancora intento a massacrare il suo Rickenbacker e a parlare di puttane nelle solite canzoni da tre accordi. Azioni salienti del concerto, una “Ace of Spades” da brividi e una lunghissima “Overkill” da delirio generale. La conferma prima che i Motorhead sono tutto tranne che un gruppo metal.
Ma il punto più alto della serata deve ancora essere toccato. Dopo la bolgia elettrica di Lemmy, andiamo a gustarci il delicato set emo-rap di Why?. L’ex cLOUDDEAD propone il suo bell’esordio “Elephan Eyelash” con freschezza, nonostante sia un set più adatto all’Auditori – di cui si parlerà più avanti – che non ad un palco all’aperto. Soddisfatto, mi gusto la gay-spensieratezza degli I’m From Barcelona. Trenta allegri cazzoni svedesi – dei quali almeno venticinque sono oggettivamente inutili – che saltano e cantano cori stupidi in canzoni pop da farti fare “na na na na naaa”. Per gli amanti del pop e della gioia di vivere, la fine di tutto. Fine di tutto che arriva con gli Yo La Tengo, che finalmente riesco a vedere con dei volumi come iddio comanda. L’anno scorso a Benicàssim furono la delusione più grande. Quest’anno, invece, non fanno prigionieri e stendono tutti con un’ora e tre quarti di grandissimo indie-rock. Tra classici – “Tom Courtney” e “Stockholm Syndrome” su tutti – nuove canzoni – carine ma non esattamente memorabili – e strumentali mozzafiato da distruzione sonora – “i Heard You Looking” da venti minuti e pelle d’oca e lacrime, come se fosse l’ultima cosa da ascoltare prima di morire – ne esce fuori uno di quei concerti che ti fanno considerare tutto il resto inutile e privo di senso. Ne fanno le spese i Two Many Dj’s. Se già di solito non sono la mia tazza di thé (sano cerchiobottismo, in realtà mi fanno cagare), dopo la furia estatica di Ira Kaplan risultano irritanti e fastidiosi. Ma i miei amici volevano ballare e me li sono dovuti subire lo stesso. Contenti loro. Erano le tre di notte e al Fòrum c’era un freddo che te lo raccomando.
Venerdì 2 Giugno
Dopo la non indolore sveglia è tutto un parlare di Yo La Tengo. “Che cazzo di concerto!”. “Ma hai visto che roba?”. “Ne voglio ancora”. E in sottofondo le immagini di Nadal che incominciava a dominare Roland Garros. Barcellona è così. La quiete prima della tempesta. Ci attende una giornata massacrante da cui se ne uscirà con le ossa rotte ma il cuore felice. Ma andiamo con ordine e parliamo dell’Auditori. L’Auditori è un enorme (4000 posti) sala per concerti e conferenze ed ha l’acustica migliore del mondo. Qui sono stati organizzati i concerti più “sapidi” del festival – come gli Shellac (…) – e ad aprire le danze ci pensa Owen Pallett a.k.a. Final Fantasy. Le costruzioni sonore che il violinista di Arcade Fire riesce ad imbastire col solo ausilio dello Stradivari sono stupefacenti e commoventi. Le canzono sono bellissime. Romantiche. Eteree. E sullo sfondo, silhouette mobili disegnano storie di minimale malinconia. Da lacrime. Tutto l’opposto José Gonzales, che su disco un paio di melodie le azzecca anche, ma dal vivo pare decisamente superfluo. Meglio uscire, farsi abbagliare dal sole e andare a scoprire gli Appleseed Cast, che quando puntano sulle canzoni – Built to Spill + emo – sono anche fichi, ma quando tirano gli strumentali-post-pippajoli fracassano i ‘siddetti. Un po’ l’esatto contrario dei Constantines, che puntano tutto sulla potenza di un rock’n’roll tra Husker Du, Afghan Whigs e Trail of Dead. Deliranti, approssimativi e potentissimi. Una grandissima sorpresa. Un gruppo con le palle quadrate che vive per stare su un palco. Un po’ come i Drive-By Truckers, che arrivano dopo un signorile set di Mick Harvey. Gli americani sono i portabandiera del miglior rock americano e sul palco ci sanno fare. Un po’ Crazy Horse, un po’ Almann Brothers Band, un po’ Uncle Tupelo. Sanno suonare e sul palco si divertono – e fanno divertire… – da matti. E’ vecchia scuola, lo so. E allora? Sempre meglio di Jens Lekman. Che, per carità, è anche bravo, ma non è esattamente quello che voglio vedere dal vivo tra una cavalcata elettrica e quello che mi aspetta dopo. Così come i Killing Joke (che hanno iniziato a suonare sul palco Estrella Damm, quello principale). Un gruppo che, dimentico del glorioso passato, si è trasformato in un mostro tra Frankenstein, Cesare de “il Gabinetto del Dottor Caligari” e i Ramstein. Pena e schifo. Una sofferenza per le orecchie. imbarazzanti a livelli mai visti se paragonati a quello che sarebbe arrivato dopo. Dinosaur Jr. e Flaming Lips.
Dai Dinosaur Jr. non mi aspetto altro del solito, rumorosissimo concerto che l’anno scorso avevano scaraventato sui trentamila di Benicàssim. Ma questa volta c’è qualcosa di più. Dopo un anno di concerti, J Mascis e Lou Barlow sembra abbiamo iniziato a scambiarsi qualche parola e il chitarrista – sempre più brutto, per inciso – ha guadagnato molta più confidenza con il palcoscenico. insomma, è preso bene e ne deriva una scarica di adrenalina e rumore che raddoppia in potenza quella dell’anno scorso. Le canzoni sono sempre quelle – più la graditissima sorpresa di “The Wagon” – ma il coinvolgimento emotivo è doppio. Sono più compatti e si divertono di più. “Fury Little Thing” e “Sludgefeast” sono pugni nello stomaco. “Just Like Heaven” è come se ti investisse l’ottovolante più veloce del mondo. “Freak Scene” è semplicemente “Freak Scene”. Un rumore catartico che ti rimane nelle orecchie per tutta la notte e non riesci proprio a vedere il buono che c’è nelle Sleater-Kinney e i New Christs (cioè, insomma, hanno volumi normali, capite?). C’è solo una persona capace di mettere le cose sui giusti binari. E quella persona è Wayne Coyne. i Flaming Lips sono il giusto contrappunto al nichilismo di J Mascis. Sono una giostra. Disney e Warner Bros. Phil Spector e Brian Wilson. La famiglia Partridge ed Happy Days. Allen Ginsberg e il maestro Yoda. Tutti assieme senza filo logico in uno space mountain psichedelico dove il pop diventa vita e la vita diventa pop. impossibile da descrivere razionalmente questo affare che è molto più “esperienza” che “concerto”. Un po’ di titoli per gli amanti delle statistiche? “Race for the Prize”, “The yeah yeah yeah Song”, “Free Radicals”, “Yoshimi Battles the Pink Robot”, “She Don’t Use Jelly”, “Do You Realize?”. E dopo non rimane più niente. Tutto fa schifo. E qualunque altra cosa romperebbe la felicità, do you realize?
Sabato 3 Giugno
Estasiati, pensiamo a J Mascis e Wayne Coyne e vogliamo rivederli. in tv Nadal continua a mietere vittorie e io, in realtà, penso solo a quello che succederà alle ore 19: vedrò Alex Chilton dal vivo. Vedrò Alex Chilton sotto il nome Big Star. Vedrò Alex Chilton che farà le canzoni dei suoi primi due dischi. Ed è qualcosa che non si può spiegare in parole. Insomma. Uno dei tuoi cinque gruppi preferiti di tutti i tempi arriva e ti suona le sue canzoni migliori. Come restare tranquilli? Naturale quindi che, nonostante Vashti Bunyan stia facendo un set toccante all’Auditori si preferisca andare via ed aspettare l’apertura del palco principale per arrivare in prima fila. Ovviamente non c’è nessuno. Sono tutti – com’è logico – andati a vedere la Akron Family (che io ho già visto) e molti altri andranno a vedere gli Shellac, che suonano nello stesso momento di Chilton. Ma non importa. Per i Big Star questo e altro, anche se ho il grande timore di una mezza sòla. Timore scacciato dalle prime note di “in the Street”. Jody Stephens pesta sulla batteria come una macchina da rock’n’roll nei suoi giorni migliori, Jon Auer e Ken Stringfellow – Posies – garantiscono dinamismo e freschezza e Alex Chilton ha ancora le corde vocali di una volta. il tempo non lo ha reso certo più saggio, ma adesso può gustarsi il successo che si merita e davanti a lui ci sono un migliaio di persone commosse come se fossero al loro primo concerto. Quando parte “The Ballad of El Goodo” si trattengono a stento le lacrime e su “Thirteen” non ti rendi bene conto di quello cui si sta assistendo. Hai consumato i solchi di quel disco dalla copertina blu e non ti sembra vero che ora quell’uomo sia lì davanti a te a cantare due tra le tue canzoni preferite. Arrivano anche “September Gurl”, “Feel” e alcuni estratti del nuovo “In Space”, presentati da un Chilton che, con ghigno beffardo, sentenzia: “Avete comprato il mio nuovo disco? Fra trent’anni lo amerete”. Come biasimarlo, col destino bastardo che si è trovato? Emozioni in crescendo. Oggettivamente un buon concerto di rock’n’roll, divertente al punto giusto. Soggettivamente, uno dei momenti più belli della mia vita musicale.
Arriva poi il turno della Undertow Orchestra. Favoriti dal “clash” con Lou Reed – già visto: uno schifo – ci sediamo nella prima fila dell’Auditori, scalzando i deliranti fan degli Shellac, e assistiamo ad uno dei migliori e sorprendenti concerti del festival. La band altro non è che l’insieme di David Bazan – Pedro the Lion – Mark Eitzel – American Music Club – Will Johnson – Lambchop, Centr-O-Matic – e Vic Chesnutt – Vic Chesnutt – e fanno un greatest hits delle loro migliori canzoni. Il risultato è toccante. Un’ora di groppi in gola con alcuni dei migliori songwriter degli ultimi anni. Vic Chesnutt è di un’umanità imbarazzante – alla faccia della sfiga che lo ha ridotto su una sedia a rotelle – ed è forse il più grande talento inespresso degli ultimi anni. Lui è la personificazione di chi si rimette in piedi dopo una caduta rovinosa. Quando il dolore diventa troppo forte, lui c’è sempre. Ed è bellissimo. Come le canzoni di Will Johnson, musicista scoperto quel giorno. Un concerto davvero intenso. Alla fine nemmeno ti sembra sia passata un’ora e ne vorresti di più. Spettacolo opposto, quello invece proposto dai Brian Jonestown Massacre. Alfieri di una psichedlia “vecchio stile” sulla scia dei Dead Meadow, Comets on Fire e Warlocks, gli americani si lanciano in blues acidi immersi nei fumi delle code strumentali. Da sottolineare l’ultimo pezzo, un delirio di venti minuti su una nota sola e il tamburellista: un uomo orribile che si scola bottiglie di vino rosso e scuote il tamburello e basta. L’uomo rock’n’roll definitivo in attesa del circo di strada dei Violent Femmes, che nonostante l’età ed una presenza scenica imbarazzante – Gordon Gano sembra Marzullo – sanno offrire un spettacolo divertente ma, personalmente, non troppo esaltante. Ok, su “Blister in the Sun” e “Add it Up” parte la danza, ma per il resto non riesco ad annoverarlo tra i grandissimi concerti di questo festival. Certo però che Brian Ritchie è un bassista mostruoso.
Me ne vado a vedere gli Stereolab con un sorriso stampato in faccia grosso così. il loro pop retro-psichedelico ed ottimamente suonato offre un intrattenimento azzeccato. Una sorpresa positiva. Ultima nota per i Mogwai. Nonostante il post-rock sia forse la cosa che ho meno voglia di ascoltare in questo periodo, propongono il loro solito set con eccezionale mestiere. Molto freddi, ma con volumi da capogiro. Per motivi di forza maggiore – l’aereo – devo però abbandonare il festival a metà set, mettendo fine ad un’esperienza straordinaria.
Conclusioni
il Primavera è certamente uno dei grandi appuntamenti del calendario dei festival. Anno dopo anno l’organizzazione diventa impeccabile e quei piccoli difetti che prima accennavo – i cessi, il prezzo del cibo – spariscono grazie ad una proposta artistica di primissimo rilievo. E’ certamente un evento cui vale la pena prendere parte, perché per una volta puoi sentirti parte di qualcosa di “grosso”, che sarà ricordato in futuro. i grandi festival estivi sono così. Ti illudono per un paio di giorni che la musica indie sia qualcosa che investe molta più gente dei soliti quattro gatti. E quando torni alla vita di tutti i giorni un po’ ci stai male. Sia perché ricominci il routinario tran-tran, sia perché ti ricordi che i concerti, a casa tua, li vedi sempre assieme alle solite tre persone.