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Dopo cinque edizioni al Parco della Pellerina, il Traffic Free Festival trasloca nel più periferico e suggestivo giardino juvarriano della Reggia di Venaria Reale, mega-cortile circondato dalle alpi immerse nelle luci del tramonto, con la Versailles sabauda che prende vita alle spalle del palco illuminandosi a crepuscolo inoltrato. Ciò che è più importante, al di là delo spostamento, è che si torni a fare sul serio dopo la discutibile edizione dell’anno scorso che aveva tutta l’aria di essere l’ultima, tra date delocalizzate a Biella e Milano e una line-up che, fatta eccezione per la giornata elettronica, sarebbe andata bene nel 1998, se non un paio di decenni prima in alcuni casi. Quest’anno, insomma, non c’è nessun protagonismol provinciale di mezzo (leggasi Manuel Agnelli), così il Subsonica dal volto umano, Max Casacci, tira su un programma apparentemente di basso profilo per popolarità in ambito italiano, ma di gran lunga più in linea con la qualità dei festival europei. Si punta infatti sulle uniche apparizioni italiane di St. Vincent, Nick Cave & The Bad Seeds, Ladytron, Primal Scream, Santigold e Underworld. Con la differenza che forse all’estero sei nomi del genere suonerebbero in una giornata, ma al Traffic non si paga. E, sebbene, la presenza degli insopportabili turisti da festival in cerca di sottofondi diversi per le sbronze estive, faccia venir voglia di pagare 10 euro per limitarne la proliferazione, in fondo ci si accontenta.
A Venaria la gente sembra avere problemi con le indicazioni stradali, così la destra diventa spesso e volentieri sinistra, le svolte sono indicate con il gesto che sembrerebbe dirti di proseguire dritto e il concetto di metri e chilometri è più vago del solito persino tra poliziotti e vigili urbani. Così, per riuscire a trovare l’ingresso, bisogna chiedere lumi ai musicisti di St.Vincent che si aggirano spaesati nell’affascinante borgo con Annie Clark, bella e svampita nei suoi modi introversi, che attira l’attenzione per il look poco venariese più che per la sua notorietà. In America e altrove sarebbe tutt’un altro discorso, non tanto per il look. Poche settimane prima, infatti, è stata a suonare al David Letterman Show, a cui proposito i soci tirano fuori qualche aneddoto neanche troppro succoso per essere tramandato ai posteri. Si parla della loro prima volta in Italia che non ricordano neanche dove, poi dei due incredibili dischi tirati fuori in due anni dalla ventiseienne polistrumentista dell’Oklahoma. Lei concorda sul salto di qualità del nuovo “Actor” scritto in autonomia al computer. Tra le migliori uscite di questo 2009 è l’ideale maturazione di “Marry Me” nel suo ineffabile astrattismo pop tra andature orchestrali e strappi elettrici. Dal vivo non si smentisce, anzi tiene il palco incredibilmente bene, considerando quanto il binomio cantante/chitarrista elettrica riesca a poche elette. E un’urticante cover di “Dig A Pony” eseguita in solitudine sul palco ne è la prova definitiva. I brani dell’esordio “Marry Me”, dalla solennità post-moderna di “Now Now Now” d’apertura passando per la titletrack e un’incendiaria “My Lips Are Red” mettono in luce un quintetto affiatato in cui gli strumenti, sax e violino distorto, synth, basso e batteria, si amalgamano senza sovrastarsi con un’equilibrio da vera orchestra. Il resto lo fa la voce della Clark, in forma smagliante, che incanta anche chi ne ignorava l’esistenza. Le nuove “The Strangers”, “The Neighbors” e “Save Me From What I Want” suonano come dei classici nelle loro accentuazioni elettriche con l’elegante Annie che fissa i pedali con pose shoegaze che non dispiacciono. “Black Rainbow” e “Marrow” trascinano tutti in un mondo fiabesco e surreale, mentre il retrogusto Eighties di “Actor Out Of Work” è il momento più movimentato e a tratti dance del set. In un’ora e poco meno, un distillato di pura e innocua bellezza.
Nick Cave & the Bad Seeds è tutto l’opposto. Le cose sono subito messe in chiaro con una “Papa Won’t Leave You, Henry” sputata fuori senza compromessi, tra microfoni che saltano e il dinoccolato australiano che si sposta da un microfono all’altro delle sue spalle. Con la sua gestualità inimitabilmente magnetica e teatrale. Il licantropo di Melbourne col volto corrucciato anche senza quel baffo southern cui ci si era quasi affezionati, ondeggia brillo, si dimena come se non avesse alle spalle cinquantadue anni, di cui una buona metà vissuta annegando nelle droghe di Melbourne, Londra e Berlino. Lancia strali indicando di continuo qualcuno da una parte all’altra della platea, trasfigurando le linee melodiche, riadattando le liriche, improvvisando, dissacrando. L’inizio sarebbe da infarto, anche per lui probabilmente se proseguisse con una tale foga per un’altra ora e passa. Arrivano subito una “Dig, Lazarus, Dig” incazzatissima e una spumeggiante “Deanna” con in mezzo la solita, immancabile “Red Right Hand” che fa gelare il sangue nel suo incedere sinistro cui si alternano gli intermezzi drammatici degli assassinii narrati dal crooner australiano. Le sue urla risuonano in un cielo che sembra diventato rosso sangue insieme al mandolino elettrico dell’alienato Warren Ellis, violinista con delega al rumore dopo la dipartita di Blixa Bargeld.
Red Right Hand
Live meno incentrato del previsto sull’ultimo album (“Dig, Lazarus, Dig!!!”) che comunque dal vivo guadagna molto rispetto al suo effettivo valore (“Midnight Man” e soprattutto una supersonica “We Call Upon The Author”). I due batteristi/percussionisti Sclavonous e Wydler tengono su una ritmica devastante insieme al corposo basso di Casey. I due inquietanti Savage, alle tastiere, ed Ellis che sembrano due personaggi nati dalla fantasia di Lynch, riempiono il suono in maniera decisiva. L’altro residuato del post-punk dei primi anni ’80 della drogatissima Melbourne, Ed Kuepper dei Laughing Clowns, meno consumato ed eccentrico, subentra degnamente all’ultimo esule, Mick Harvey; compagno di avventure e sventure per trentasei lunghi anni, cui Cave dedica una sghemba “Nature Boy” (“he went away, his name was Mick Harvey, fuck you, thank you”). I brani di “Abattoir Blues/The Lyre Of Orpheus” (“Get Ready For Love” e “There She Goes My Beautiful World”) dal vivo diventano confusionari in un approccio garage che resta prevalente in tutto lo show. Ci pensano comunque i classici, sfornati in quantità dalla delirante fanfara post-punk dei semi cattivi a infuocare l’atmosfera: “The Weeping Song” e “The Mercy Seat” nell’ormai consolidata versione rallentata e narcotizzata in atmosfere voodoo da Deep South. Nick si divide senza strappi tra voce e piano nelle sue torbide ballad noir, da “Love Letter” a “The Ship Song” passando per l’inquieta nenia di “Henry Lee” e la toccante “Lucy” in chiusura. La sostanza non cambia quando imbraccia la chitarra come usa fare da qualche anno a questa parte per i momenti più ruvidi e travolgenti, su tutte l’infernale “Tupelo” che fa tremare la reggia e Torino tutta. Momento topico dell’esibizione, al solito, la spettrale “Stagger Lee” che piove dal cielo in tutta la sua impietosa visceralità. Il posseduto Ellis finalmente al violino disegna vortici noise orrorifici, Nick non la smetterebbe più di sputare fiele nei suoi contorti versi tra spiritualità, sangue, estasi, amore e disincanto. Ma purtroppo smette, e ci mancherà non poco.
Tupelo
Parlare dei gruppi locali inseriti qua e là tra un cambio di palco e l’altro e in apertura dello stage principale, metterebbe per l’ennesima volta in luce la stanchezza di un underground italiano che soprattutto in ambito torinese è stato a lungo sopravvalutato. Se quanto scelto dal Traffic per lanciare la scena locale dovesse rappresentarne il meglio, c’è solo da rabbrividire. Gli intenti saranno anche lodevoli, ma chiamare qualche nome nuovo straniero avrebbe reso determinate attese meno snervanti. Unica nota di merito per i due nomi italiani chiamati per la chiusura electro di sabato. I Crookers, malgrado qualche eccesso tamarro imperdonabile, e, molto meglio, gli incontenibili Bloody Beetroots che chiudono il festival sulle note di “Disorder” dei Joy Division, fanno la loro figura.
Non che i nomi stranieri siano necessariamente una garanzia. Come per esempio i Ladytron, che pure in determinati ambiti festaioli si lasciano ascoltare bene nel loro nostalgico synth-pop dai toni electro che fa la gioia delle platee indie inglesi. Il quartetto di Liverpool, che poi tanto nome nuovo non è, arrivato al quarto album dopo dieci anni di carriera, si perde un po’ negli eccessivi bassi che prevalgono nelle loro atmosfere gotiche da darkettoni mai guariti. Si riprendono gradualmente, soprattutto a livello vocale, in “Runaway” dall’ultimo “Velocifero” e l’irresistibile “Destroy Everything You Touch”. Inspiegabilmente tralasciata invece “Playgirl”.
Inutile negarlo, ma l’attesa di venerdì, attesa che per il pubblico italiano dura da troppo tempo, è tutta per i Primal Scream. Perché tra scazzi tra Gillespie e organizzatori, agenzie dissennate e prevendite inspiegabilmente flop e cancellazioni mai chiarite, è dal 1994 che una delle band più importanti degli ultimi vent’anni non fa tappa in Italia.
Era l’anno di “Give Out But Don’t Give Up”, di quel revival molto stones degnamente rievocato stasera nei suoi spettri reconditi più festaioli, con due esecuzioni d’annata, di “Jailbird” e “Rocks”. Non sembrerebbe passato tanto tempo, ma il fatto che ci siano tanti, troppi spazi vuoti malgrado la gratuità dell’evento, spiegherebbe molte cose. Come dire, in maniera un po’ brutale, che l’Italia forse non li merita.
Basta la carica di “Can’t Go Back” e la strippata acidità di“Miss Lucifer” per capire quanto siano intenzionati a fare sul serio. Un velocissimo uno-due iniziale che mette a tacere ogni scetticismo su una band che sembrava alla frutta dopo il discusso “Riot City Blues”. Il set sarà pure più rock’n’roll e sanguigno, ma fa ancora inesorabilmente il culo alla maggior parte delle nuove rock band britanniche. Bobby, con il suo peculiare tono, ammesso che si possa definirlo tale, canta, si lagna e stona come solo lui può e deve fare. Il testimone dell’altro pezzo di storia, sir Gary MANI Mounfield, al basso è una macchina di guerra. Il resto della ciurma fa lo sporco lavoro con un’energia mai sottotono. I riff di Innes alla chitarra grondano sangue nelle esplosive canzonette quali l’immortale inno madchester “Movin’ On Up” dall’epocale “Screamadelica” o la campagnola “Country Girl”, quanto in “Suicide Bomb” e la titletrack da “Beautiful Future”.
I granitici acid-rock di “Evil Heat”, “Skull X” e “City”, nei loro volumi criminali mettono a dura prova l’impianto che cederà del tutto alla fine del concerto con scariche e rumori gracchianti che significano una cosa sola. Lui, ostentatamente scazzato, insulta, ma non abbastanza, un tizio che gli scaglia addosso dell’acqua (si indovini pure la frase collegando le parole cock sucker mother e whore). Molto posato oggi rispetto al solito l’ex-batterista dei Jesus & Mary Chain. Quasi concentrato sulla prestazione vocale più che sul degenero. E si nota tutto. Gli altri se la ridono e se la suonano senza fronzoli. Il meglio non può che piovere giù dritto da quell’”XTRMNTR” che a nove anni dalla sua uscita, suona ancora come uno degli album più rappresentativi di questo arido primo decennio di ventunesimo secolo. “Swastika Eyes” ideale sabba house-rock in un’apocalissi di fragori, luci e visual, la sinfonia rock intergalattica “Shoot Speed/Kill Light”, “Accelerator” che da brutale apertura è ormai posta in coda al bis e due vere e proprie chicche come la fatale titletrack e una “Kill All Hippies” devastante nel suo messaggio quanto nel suo tiro. I Primal sono fottutamente in vena, al di là della gigantesca scaletta proposta, perché i momenti più oscuri e sommessi, quale una “Deep Hit Of Morning Sun” imbevuta di mescalina e “Damaged” rendono altrettanto bene.
Il regalo da portare nel cuore resta però un’inaspettata “Higher Than The Sun” che trascina tutti in un buco nero che si protrarrà a sprazzi nelle ore e nei giorni successivi. I Primal Scream in fondo sono questo. Possono essere tutto e il contrario di tutto senza sembrare mai qualcos’altro.
Il giorno dopo ci si riprende a fatica per quella che sarà la serata più elettronica e gggiovane delle tre. La fauna giunta a Venaria è quello che ci si aspetta per il ritorno in Italia di un collettivo che oltre ad aver rivoluzionato l’elettronica degli anni ’90 ha avuto la fortuna/sfortuna di concepire un inno generazionale quale “Born Slippy” e di autorizzarne lo sdoganamento definito mettendolo in “Trainspotting”. Sono tutti per loro insomma, senza distinzioni di tribù urbana. Anche se prima però ci sarebbe l’osannatissima Santigold, che aveva esordito con l’acronimo Santogold (“Santogold”), cui ha dovuto rinunciare dopo un contenzioso legale con un regista molto meno osannato di un improbabile b-movie di fantascienza sul wrestling dal titolo “Santo Gold’s Blood Circus”. Il suo originale mix di electro, dub, wave, reggae e hip-hop dall’identità rigorosamente nigga è sulla cresta dell’onda. Sembra davvero accontentare tutti, anche se dal vivo ci si aspetterebbe una performance vocale e una presenza scenica più degna di tali aspettative. Le due coriste pseudo-ballerine accompagnano la White con imperdibili movimenti sincopati alla moviola, i tre componenti della band edificano un muro sonoro compatto, ma la scaletta non ha il giusto equilibrio tra le ottime “L.E.S. Artistes”, “You’ll Find A Way” e “Say-Aha” e i momenti più nigga che fanno da contraltare nell’eponimo esordio del 2008. “Unstoppable” si fa preferire a “Creator” nel suo arrangiamento più ruvido e aggressivo. Da risentire in una situazione diversa.
Il giardino della reggia si riempirà poco dopo, coi soliti irriducibili che si accalcano nelle prime file arrivando cinque prima dell’inizio dello show e pretendendo di stare nelle prime file. Gli stessi che inneggeranno probabilmente a “Born Slippy” per tutta la durata dello spettacolo. Dimenticando o forse ignorando che gli Underworld siano vent’anni di musica, non un singolo ben riuscito. Otto album, almeno i primi tre fondamentali per spianare la strada a decine di artisti elettronici degli anni ’90. Gli anni ’90 sembrerebbero veramente tornati. Ad avvolgere i giardini della reggia con il visual a bassa fedeltà del trio, i mega-palloncini tubolari su cui si proiettano i giochi di luce dietro le consolle che, in un tributo digitale a The Wall, crollano a metà concerto. Il resto lo fanno gli sculettamenti trash e l’allucinata gestualità di un altro cinquantaduenne supergiovane del Traffic 2009, Karl Hyde e la sua inguardabile giacchetta a lustrini argentata. Il suo timbro così tipico dello scorso decennio si incastra tra cassa dritta e le vellutate trame sintetiche di Rick Smith e Darren Price per due ore di nostalgia pura tra richiami del decennio precedente, techno sognante, spinte house e lunghe ipnotiche digressioni strumentali.
“Pearls Girls”, “King of Snake”, “Rez”, “Cowgirl”, “2 Months Off”, “Push Upstairs”, “Jumbo”, “Beautiful Burnout”, “Dark Train”, “Moaner” e tante altre oltre all’inevitabile classico accolto da scene di eccessivo entusiasmo tra palloncini giganti lanciati sulla platea, gemiti isterici e un tappeto di fotocamere a immortalare il tutto.
Gli anni ’90, che il collettivo inglese come pochi altri riesce a caratterizzare nei suoi sottofondi e nelle sue atmosfere, in fondo ci mancano in tutte le loro contraddizioni, i suoi eccessi, la loro pochezza culturale e il dilagante cattivo gusto. L’MDMA già c’era, ma le fotocamere, per esempio, ancora no.