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Ah il brit pop…Sembra ieri e invece sono passati dieci anni da quando ancora dodicenne mi coltivavo con orgoglio la mia brava frangetta da albarniano convinto (pagandone oggi le tristi conseguenze) e me ne andavo a spasso in bicicletta per le campagne intonando i ritornelli di “Parklife” mandati a memoria, innamorato di ragazze che non mi amavano (e come avrebbero potuto?) mentre gli Oasis cantavano la mia summer of love (e ognuno di noi ha avuto la summer of love che si meritava, nel bene e nel male), quando divertirsi con la musica non era ancora una colpa da espiare e bastava anche un malconcio riff di chitarra di terza mano per sentirsi immortali o invulnerabili. E’ con questi pensieri, consapevole di essere ormai, come direbbe Sandro Veronesi, una “forza del passato”, che inevitabilmente si va ad un concerto di Brett Anderson, già indimenticato leader degli altrettanto indimenticati Suede, in giro per l’Europa a promuovere il suo ultimo parto discografico solista (così oggettivamente fragile e vulnerabile, per non dire brutto, che viene quasi voglia di difenderlo per un’assurda questione di principio).
La location è piuttosto insolita e abbastanza periferica rispetto ai luoghi consueti in cui la musica live viene di norma proposta nella capitale (l’acustica avrà però poi modo di rivelarsi pressoché perfetta). Il pubblico, composto per lo più da trenta/quarantenni (una buona parte dei quali ben vestiti e in carriera) è piuttosto sparuto, ma fortemente motivato e visibilmente curioso e trepidante di rivedere il proprio amatissimo eroe dopo anni di prolungata latitanza. Il livello medio delle numerose ragazze accorse è più che soddisfacente e questo contribuisce a rintuzzare il buon umore e l’entusiasmo (per fortuna non c’è la mia compagna di scuola media di cui ero innamorato quando scoprii i Suede, altrimenti mi sarei versato la birra in testa). Ad aprire il concerto è un ignoto duo voce/pianoforte di cui non sono riuscito a carpire il nome (ma adesso lo so, trattasi infatti degli italianissimi e in realtà assai apprezzati, in virtù del loro “nihilist pop”, Spiritual Front) e che si avventura in una rivisitazione invero abbastanza pedissequa e melensa di certe pagine bowiane di “stardustiana” memoria, con qualche tocco decadente e apocalittico che non guasta mai. In particolare il cantante, che sembra prendersi molto sul serio, con la sua cravatta e i suoi orecchini e il suo stilosissimo taglio di capelli, imita in modo spaventosamente disarmante il Brett Anderson di due lustri fa, tanto da alimentare qualche iniziale legittimo dubbio (ma non sarà lui Brett Anderson? Naaa, impossibile…). La musica non sarebbe malvagia (buona ad esempio “Jesus Died In Las Vegas”), anche se piuttosto monocorde e troppo enfatica, ma a incuriosire (e inquietare) sono piuttosto le immagini proiettate alle spalle del palco, un film in cui due marinai intrattengono un rapporto anale completo (?!), con tanto di didascalie in italiano (roba del tipo:”E’ molto grosso, ma ci sai fare…”).
Tempo di dare una sistematina alle luci e Anderson si presenta sul palco, acclamato dal pubblico. Il cantante londinese, ormai quarantenne, sembra aver definitivamente chiuso in mansarda i proverbiali completini di pelle nera, e si presenta avvolto da una naturale eleganza e da una ritrovata sobrietà. In giacca blu e camicia bianca aperta sul petto, con qualche ruga ma ancora in forma perfetta, questo esteta raffinato e maestro di provocazioni sembra ormai aver trovato il senso di una nuova bellezza nella sintesi più estrema e minimale, tanto che ad accompagnare la sua chitarra acustica (alternata nei momenti più intensi con un pianoforte) c’è soltanto una dimessa violoncellista. L’inizio è prevedibilmente affidato a “Love is dead” che apre l’ultimo disco (da esso verranno poi riproposti anche “To the winter”, “One Lazy Morning” e “Scorpio rising”) e a colpire subito l’uditorio è soprattutto la qualità assoluta dell’interpretazione vocale, che onora la fama di cui Anderson aveva goduto come inimitabile vocalist per buona parte degli anni novanta. Nel frattempo io disquisisco con un ignoto avventore su quanto erano forti gli Ocean Color Scene (o erano migliori i Pulp?) e sugli incerti orientamenti sessuali di Anderson, tanto da beccarmi i rimbrotti delle ragazze più attente che rivendicano il loro elementare diritto ad ascoltare. Fioccano anche un paio di “A frocio!!” (che ci vuoi fare, dopo tutto siamo a Roma) all’indirizzo del cantante che per fortuna conosce solo “grazie” in italiano, tra il generale scandalo e sdegno dei puristi assorti delle prime file e il divertimento dei più smaliziati. Ma Anderson è un fuoriclasse senza tempo che, se solo volesse, potrebbe scrocchiare sotto i suoi talloni le teste di tutti i My Chemical Romace e Paoli Nutini di questo mondo, e fa il concerto che non ti aspetti: ripesca pagine minori della discografia Suede, rileggendole in modo a dir poco principesco, andando a riproporre due splendide “Everything will flow” e “Indian Strings” dal generalmente sottovalutatissimo (ma non da me che sono ancora sano di mente e mi voglio bene) “Head music” del 2000 (dal quale attingerà anche una “Down” che ha tolto per qualche minuto il fiato e le mani al pubblico, per troppo cantare e applaudire), ma non mancano i classici come “Saturday night”, “By The Sea”, e soprattutto una “The power” (da “Dog Man Star”) in cui la voce di Anderson ha sfiorato altezze metafisiche che non hanno mandato i boccali di birra in frantumi soltanto perché erano fatti di plastica. Tra un pezzo e l’altro Anderson beve qualche piccola sorsata di tè e dopo una prima mezz’ora di show, secondo un costume sempre più diffuso in terra d’Albione, inserisce un pausa di dieci minuti prima di ricominciare. Il pubblico, incitato da un Anderson insolitamente affabile e comunicativo, canta tutto a memoria e applaude spaesato quando viene riproposta un’inaspettata b-side come “Europe is our playground” su cui forse nessuno avrebbe scommesso, prontamente bilanciata dalle intramontabili “The two of us”, “The Wild Ones”, ”Pantomime Horse”, “Asphalt world” e “Still Life” che grattano via con le loro vibrazioni vari strati di muffa dall’anima e dai ricordi.
Nel bis arrivano le immancabili “So Young” e “Trash” che spazzano via tutte le resistenze residue ed entrano di diritto e prepotenza nella mia personale classifica: “Le dieci volte che ho visto Dio da vicino”. Anderson saluta, consapevole di aver ancora una volta stravinto come un irreprensibile Dorian Gray la sfida con il tempo inesorabile che passa, e se ne va a passi svelti facendosi largo tra il pubblico esultante, scortato dal suo gorilla. E ce ne andiamo anche noi, al suono di “New Generation” sparata a volumi altissimi come una sirena antincendio. Soddisfatti e sorridenti come Mia Farrow alla fine de “La Rosa Purpurea Del Cairo”, perché il miracolo puro della musica ci ha toccato e non era così scontato.
Un ringraziamento a Federico Spadini, per essersi voluto imbarcare (lui che non c’entrava nulla!), in questa questione molto “privata”.