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Dopo anni di possibili incontri sempre puntualmente disattesi, riusciamo finalmente ad assistere al concerto di uno dei gruppi da noi più amati tra quelli sbocciati nel caos capovolto di questi anni doppio zero. Non figureranno forse mai nelle nostre classifiche di fine anno secolo millennio forse perchè figli di un piacere così inguaribilmente idiosincratico da non poter essere né comunicato né condiviso, eppure gli Art Brut appartengono (al pari dei loro fratelli maggiori Fall o Wedding Present e altri) a quella ristretta cerchia di band (anche se più che ad una band somigliano in definitiva ad un concetto o ad un gesto, quello compiuto come una liturgia dal cantante Eddie Argos quando impugna il microfono ad occhi chiusi, salta all’indietro ed inizia ad urlare) che ci hanno salvato e continuano a salvarci la vita ogni sera, quando accendiamo il braciere dello stereo scricchiolante per scaldarci un po’ il cuore sconsolato prima di andare a dormire.
Per la sublime ironia di un destino fin troppo prevedibilmente beffardo, vediamo la band nella tournè a supporto del loro disco meno chiacchierato e, forse, apprezzato, il terzo, “Art Brut Vs. Satan”, ancora fresco di torchi. È lontano come un mito irreale il 2005 e tutto il clamore mediatico della tracentomilionesima british invasion, i Kaiser Chiefs e i Bloc Party si annoiano, i Rakes si sciolgono per non annoiarsi, gli Arctic Monkeys vanno ad abbronzare le proprie canzoni al sole intontito come un barbecue del deserto californiano, Eddie Argos non appare più nudo sulla copertina di Nme nella più morbosa e delirante caricatura di Beth Ditto mai immaginata, nel frattempo la sua band perde per strada persino un contratto con la Virgin e, come direbbe John Peel, non ci piace più, forse, nemmeno la musica che ci piace. Gli Art Brut decidono di rispondere a tutto questo andandosene pure loro in America a registrare un disco punkissimo prodotto dal guru Frank Black e riadattando le proprie pungenti didascalie in calce al conformismo piccolo-borghese del charmeless man medio britannico al filo spinato più aguzzo e cacofonico di Pixies, Replacements e Husker Du del caso.
Ad aprire pensa lo chansonnier londinese, un po’ mendicante clochard un po’ hipster strategico, Kid Harpoon, all’ombra del sempre ingombrante Pete Doherty, assimilabile ad altri eroi di quartiere della City più periferica, come Jamie T o Jack Penate (la nostra preferenza va a quest’ultimo), a Roma per presentare davanti a diciassette persone (che nel frattempo si guardano e studiano nella poca luce) le canzoni del suo esordio “Once”, appena stampato dalla sempre “sul pezzo” XL. Non male alla fine, birra orecchino chitarra e un vago spleen metropolitano, una cane randagio punk-folk spelacchiato e romantico che fruga nel buio di una stradina secondaria di Camdem Town, comunque meglio del singolo visto di sfuggita e per puro caso su Mtv in fascia diurna non protetta qualche giorno prima. Ma forse è in ritardo sui tempi di almeno quattro anni (pure lui…).Infatti è solo sul palco, senza band, come se fosse l’ultimo rimasto in un locale vuoto dopo una lunghissima festa.
Salgono sul palco gli Art Brut e sappiamo perfettamente che non sarà il loro concerto migliore né il più importante, appaiono un po’ stanchi e stazzonati ed è fortissimo il rimbombo sordo di un popolarità dorata ormai lontana che serpeggia e vibra come un’assenza silenziosa ma più che tangibile tra le fila del pubblico che si va rintuzzando ed è proprio per questo che siamo emozionatissimi. Il batterista Mikey B suona in piedi ma centrifuga i tempi come il motorino di una lavatrice ritmica inarrestabile, Jesper Future e Ian Catskilkin fanno boccacce e scimmiottano come marionette del ridicolo la concitata ginnastica posturale del chitarrista rock “tipo”, la bassista Freddy Feedback è più defilata e nascosta sotto il proprio ciuffo viola, ma tutti ridono dall’inizio alla fine, ed è un po’ un sano (ed onesto) ridere di sé stessi ma anche del rock (grande lezione: il rock che non sa far ridere non è una cosa molto seria).
Dopo un accenno iniziale di “Back In Black”, parte un gratest hits dei tre album sinora pubblicati, ogni canzone sembra sempre una riesecuzione più veloce della precedente con qualche postilla irrilevante aggiunta qua e là, Eddie pattina sul cabaret voltaire delle sue canzoni come un funambolo equilibrista con la pancia e un bell’orologio, urla, chiacchiera, divaga (anzi le sue canzoni sono in definitiva divagazioni, infatti le appunta nel cellulare mentre passeggia), salta la corda del microfono, va dietro una cassa ad armeggiare con bicchieri di carta pieni di ghiaccio, scende tra il pubblico e fa sedere tutti a terra per attaccare un racconto interminabile di quella volta che andò negli uffici della Dc Comics (una delle sue ossessioni erotiche preferite) di New York, suona una chitarra in playback (ma prima di farlo avvisa il pubblico), parla di Iggy Pop, David Bowie, Top Of The Pops (incrociando le dita) e ci aiuta a capire che questo non è affatto un puro caso perchè gli Art Brut sono l’amore per la musica rock che diventa una rock band che fa musica rock (senza saperla fare, l’unico modo buono di farla), sono il piacere di essere in una rock band che diventa una canzone sul piacere di aver appena fondato una rock band (ascoltatevi la varie “Bang Bang Rock’n’Roll”, “My Little Brother” o “Formed A Band”) e nel complesso paiono appena usciti dalla sala prove in garage con il primo demo luccicante stretto tra le mani sudaticce come un talismano.
Ovviamente e come è giusto non viene eseguita la nostra canzone preferita, “Nag Nag Nag Nag”, e al momento delle presentazione finale parte la filastrocca: alla chitarra Art Brut!, al basso Art Brut! alla batteria Art Brut! e così via. Non è stato il miglior concerto della nostra vita, eppure tutto è andato perfettamente come doveva andare, come l’insostituibile banalità della (vera) felicità che ci si scrive sulla faccia in forma di bislacco sorriso mentre imbocchiamo l’uscita ancora incantati. Gli Art Brut ci hanno salvato la vita per l’ennesima volta.