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Serata da ricordare questa del 19 maggio del 2003: gli Oneida e Cat Power sul palco, di seguito, occasione irripetibile per i musicofili romani. La folla riunitasi a La Palma per assistere all’evento è sostanziosa; niente di paragonabile all’oceano umano che ha invaso la capitale solo pochi giorni fa, prima per l’appuntamento del Primo Maggio a piazza San Giovanni e poi per il concerto di Paul McCartney ai Fori Imperiali.
E proprio quei fans del baronetto ex-beatles che, intervistati dai telegiornali, lanciavano parole velenose verso la musica contemporanea rea di aver smarrito la purezza etica e stilistica dei “favolosi anni ’60” avrebbero fatto bene a ritrovarsi stasera davanti al palco dove il gruppo newyorchese e la cantautrice dal nome così enigmatico e straniante hanno dato prova di tutto il loro valore. Hanno aperto le danze i WAC, acronimo di Woman and Children, che avevano il compito di scaldare il pubblico per l’arrivo degli Oneida.
L’ex-quartetto, ridotto ormai in terzetto, non tarda a salire sul palco e, dopo due convenevoli scambiati con il pubblico, esordisce con una versione tirata e distorta di “Each One Teach One”, title-track del loro ultimo osannato lavoro vincitore dei MusiKàl! Awards 2002, gemma rumorosa nella quale il tempo è dettato da un riff in puro stile anni ’70. Lo stupore è immediato ed è dovuto al fatto che gli Oneida si presentano sul palco senza chitarra: basso/batteria/tastiera, con quest’ultima scheggia impazzita decisa a colpire con frenesia e precisione l’attenzione del pubblico.
Gli strumenti cambiano, si alternano, arriva anche il tempo della chitarra ma, senza rispettare l’iconografia garage, la si usa per i brani più melodici. Il gruppo si diverte e si premura di farlo sapere a più riprese all’uditorio, che risponde con energia e ardore. Gli Oneida presentano i brani di “Each One Teach One” – con una versione da lasciare senza fiato di “People of the North” – ma non disdegnano riletture dei loro album precedenti, con particolare preferenza per “Anthem for the Moon”, e chiudono la loro apparizione tra l’euforia generale con “Sheets of Easter”, follia catatonica nella quale i tre aggrediscono i propri strumenti, in un vortice musicale sorprendente. Era impossibile pretendere la versione integrale del brano (in studio 14 minuti), ma gli Oneida ne regalano comunque sette minuti o poco più.
In appena un’ora di set si è potuto cogliere lo stile del gruppo, teso a mescolare reminiscenze psichedeliche, new wave, rock teutonico, elettronica alla Suicide, in un insieme coeso e suonato in maniera eccellente (e che batteria! Che batteria!!!).
Gli Oneida salutano ed è la volta di Cat Power, ovvero Chan Marshall; dalla furia compositiva del terzetto si passa al tenue e notturno sussurro della cantautrice. Suoni scarni, bassi, voce appena accennata, un’idiosincrasia verso le luci della ribalta che la portano a sedersi in un angolo, accovacciata su se stessa e sulla sua chitarra acustica, mentre il resto del palco, più illuminato, è occupato da violino, chitarra elettrica e batteria.
Anche lei è qui in Italia per presentare il suo ultimo lavoro, “You Are Free”, e anche lei lo esegue in gran parte. L’aria si riempie di queste ballate delicate, timide, e l’atmosfera cambia completamente: laddove fino a pochi minuti prima si respirava epilessia e divertissement, qui si respira candore e fragilità. Cat Power canta di sé e non si concede con troppa facilità, il pubblico rispetta senza ribellarsi questa sua percettibile agorafobia. Quando lei si abbandona sul suo pianoforte, sola (gli altri strumentisti fuori dalla scena), il silenzio regna nella sala: lei apprezza, e regala un appunto strappato ai White Stripes e un omaggio a Bob Dylan, una “Knockin’ On Heaven’s Door” emozionante ed eterea. E’ poi la volta degli strumentali titoli di coda della sua serata.
Si inchina una volta, due volte, tre volte, a mani giunte, inciampa e rischia di cadere e poi se ne va dietro le quinte insieme alla sua band, silenziosa e timida come lei. Un gruppo di persone non ne vuole sapere della fine e la richiama a gran voce. Lei non esce più. Veramente una serata da ricordare questa appena passata e vissuta qui a Roma, nel caldo infernale del maggio vissuto nell’urbe.
Dimostrazione di come si possano coniugare, senza rischiare niente, due approcci musicali completamente diversi e di come la tipizzazione del rock e la suddivisione in compartimenti stagni della musica lascino davvero il tempo che trovano.