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Nel periodo compreso tra il 2013 e il 2019, mentre studiavo a Chieti, ho avuto l’opportunità di collaborare con l’IndieRocket, prima di lasciare l’Italia per trasferirmi ad Helsinki. Nel mio cuore, è rimasto un senso di rimpianto per non aver mai osato chiedere a Paolo, la mente creativa e direttore artistico del festival, molte delle domande che mi frullavano in testa. Forse per timidezza o forse perché durante il Festival, il tempo scorreva veloce e le robe da fare erano innumerevoli.
In occasione del ventennale del Festival, ho deciso di colmare questo vuoto e proporre a Paolo un’intervista. Non volevo una semplice conversazione che sfocasse nel comunicato stampa sterile o cose incentrata sulla lineup dell’edizione imminente; il mio desiderio era esplorare le storie che s’intrecciano dietro le quinte dell’evento, storie che inevitabilmente si fondono con quella di Pescara, o almeno con una parte di essa.
Da questa premessa è nata una lunga chiacchierata, un tesoro prezioso per me e, spero, anche per Paolo e per chiunque si imbatterà in queste parole. L’attesa edizione 2023 dell’IndieRocket Festival tornerà a colorare il Parco dell’ex Caserma di Cocco dal 23 al 25 Giugno.
Non so ancora se potrò esserci, ma se ne avete l’opportunità, non lasciatevela sfuggire.
Partiamo dall’inizio, prendiamola larghissima: cosa era Pescara a alla fine degli anni ’90?
Pescara era una tipica città di provincia, piccola ma con dinamiche socio-culturali peculiari. Essendo ben collegata alle città più grandi nelle vicinanze, come Roma e Bologna, c’era una certa mobilità per quanto riguarda l’arte, la cultura e la politica. Era comune che i gruppi musicali e gli appassionati di musica si recassero spesso in queste città per vivere esperienze musicali più ampie. Tuttavia, questo fenomeno portava anche diverse energie a Pescara. In quel periodo, c’era comunque molta musica in città, soprattutto nel circuito underground. Pescara offriva due o tre situazioni underground che permettevano di entrare in contatto con la musica che girava all’epoca. C’era un po’ di tutto, dal punk al post-rock al post-hardcore.
Girava solo roba italiana o anche roba internazionale?
Io ho iniziato a fare il promoter locale per portare ancora più gruppi internazionali nella mia città, nonostante molti già si esibissero qui. Spesso, Pescara era una tappa intermedia per le band underground internazionali che si spostavano dal nord al sud dell’Italia. Queste band, pur essendo piccole, erano interessanti e rappresentavano vari generi musicali. Era un aspetto caratteristico di quegli anni.
Quando hai iniziato a fare il promoter, esattamente?
Nel ’99. Mi occupavo principalmente di attività legate alla scena hardcore-punk nel senso più ampio. Organizzavo eventi anche molto diversi, spesso con un forte impegno politico, legati ai movimenti sociali e a piccoli festival contro le guerre che imperversavano in quel periodo. Da lì, iniziammo a organizzare eventi legati alla musica alternativa.
C’erano diverse etichette americane che portavano in tour in Europa band non strettamente punk, ma con un’attitudine DIY molto marcata. Dal punto di vista musicale, queste band iniziavano a sperimentare con l’elettronica e vari tipi di crossover, a prescindere dal crossover inteso canonicamente come metal o qualcosa di simile. Parlo di un incrocio letterale di generi, come il revival punk funk e altri revival simili.
In seguito, iniziai a lavorare con molte persone che si occupavano sostanzialmente di musica elettronica in senso stretto.
E quindi arriviamo all’IndieRocket Festival: a chi viene l’idea e come?
L’idea dell’IndieRocket Festival è nata in modo piuttosto naturale tra il 2002 e il 2003, quando un gruppo di amici si unì attorno ai numerosi concerti organizzati in quel biennio. C’era una vera e propria scena musicale legata principalmente a 2 o 3 pilastri: il primo ero io, che avevo deciso di iniziare a organizzare concerti come promoter; il secondo era Radio Città, che aveva un seguito di militanti e appassionati di musica e vari programmi. Queste persone, spesso orfane delle Feste de l’Unità e dei vari festival organizzati nei 10-15 anni precedenti, erano abituate a fare musica e a organizzare concerti, pur essendo in genere più adulte di noi.
Infine, c’era un insieme di realtà che si intersecavano, come è tipico nelle città di provincia. Ogni persona svolgeva più ruoli e faceva parte di più gruppi. Quando si parla di scena musicale, ci si riferisce al fatto che tendenzialmente ti ritrovi sempre con qualcuno a fare delle cose e, alla fine, tutti si conoscono.
Parliamo di questi “tutti”.
Oltre a Radio Città, appunto, c’era un negozio di dischi, Screamadelica, che fungeva da punto di riferimento e luogo d’incontro per gli appassionati. C’era anche un club, il BACAB, dove ho iniziato a organizzare eventi simili a ciò che sarebbe diventato l’IndieRocket. Inoltre, c’era Movimentazioni, un’associazione culturale nascente che mirava a aprire un book shop e organizzava nel frattempo molte altre manifestazioni di diverso tipo.
L’unione di tutte queste energie e forze cittadine, dopo due anni di concerti in piccoli locali, ha dato vita a un effetto domino. Ad un certo punto, ci siamo chiesti: “Perché non organizziamo un festival la prossima primavera?”. Così è nato l’IndieRocket Festival: un’emanazione della programmazione musicale di quel biennio e dei decenni precedenti, che avevano dato vita a band, radio, negozi di dischi, locali e tutto il resto.
Avete trovato ostacoli all’inizio?
In quel periodo, l’energia in città era decisamente diversa, e il passo da compiere era molto più breve. Inoltre, senza voler sembrare un nostalgico boomer, era ancora normale vedere 1000-1500 giovani e meno giovani radunarsi per un evento musicale. Ora, in alcune situazioni e città, incluso Pescara, c’è quasi uno stigma verso certe cose.
Onestamente, non so come siamo arrivati a questo punto, ma per alcune fasce di popolazione ora la situazione è cambiata. Prima si limitavano al silenzio e al limite a lamentarsi del rumore se c’erano case vicine. Tuttavia, era davvero considerato normale che ragazzi più o meno giovani chiedessero aiuto e fondi all’amministrazione o a piccoli sponsor. Era accettato il concetto di poter ricevere sostegno per organizzare un evento, soprattutto se si prevedevano finalità culturali.
È importante sottolineare che le dimensioni degli eventi erano diverse, i budget richiesti erano diversi e i costi erano diversi. Ma, come ho detto, in città c’era anche un fermento diverso.
Dove iniziate a fare il festival?
Nei primi anni, l’IndieRocket Festival si svolgeva al chiuso e per moltissimi anni l’ingresso era gratuito, basato su una sottoscrizione volontaria. Il primo anno, il festival si tenne in un pattinodromo a Pescara Colli. Era un luogo con un riverbero di oltre 10 secondi (ridiamo). Ma seriamente, da un punto di vista acustico, era assolutamente inadeguato. Tuttavia, la programmazione era molto più avant, molto più noise e post-punk, quindi ci siamo adattati. Insomma, il primo anno è stato molto rock, con tutte le sfaccettature di ciò che era il rock di quegli anni, ovviamente.
Qua siamo nel 2004.
Esatto. Nel 2005, abbiamo alzato un po’ il tiro, scegliendo un palazzetto dello sport, ma anche lì non si era mai fatto nulla del genere. Tendenzialmente, ci interessava portare la novità che proponevamo in spazi atipici della città, anche per caratterizzarla ulteriormente. Nonostante la situazione fosse pessima dal punto di vista acustico, per noi era importante presidiare zone della città dove non si svolgevano eventi.
Quando mai qualcuno aveva organizzato qualcosa al pattinodromo a Pescara Colli? Io stesso ci ero stato, forse, a pattinare da bambino. Oppure l’anno dopo al palazzetto dello sport di Rigopiano, dove raramente penso siano stati organizzati concerti. Tuttavia, era poco distante dal centro città, e secondo me era più interessante avere musica in un palazzetto dello sport piuttosto che solo il Sert a dieci minuti a piedi. Quindi, abbiamo iniziato un percorso che aveva un’impronta molto più sociale e attenta al contesto urbano.
E ora quell’impronta non c’è più?
Non sto dicendo che oggi non sia più così, ma le dinamiche intorno a noi e il modo in cui facciamo le cose sono cambiate. Anche i tempi erano diversi, perché in vent’anni molte cose sono cambiate. In quegli anni, c’era una nuova Giunta politica che voleva dare spazio ai giovani. Che lo facesse in maniera costruita, strategica o paracula, chi può dirlo? In realtà, non ci interessa granché, ma il fatto è che ogni volta che in quegli anni abbiamo bussato ai vari assessorati, ci hanno detto “sì, quanto volete?” oppure “questo è troppo, ma vi possiamo dare quest’altro”.
Il grosso dei soldi, come al solito, veniva dalle sottoscrizioni e dai bar, ma noi eravamo abituati a quel tipo di vita. Sapevamo come organizzare eventi con 1500 persone e sapevamo che, in questo modo, saremmo riusciti a coprire le spese.
E dopo le esperienze indoor decidete che è il momento di provare a fare un festival all’aperto.
In realtà quando abbiamo cercato di trovare posti all’aperto sono iniziate le difficoltà.
Perché?
Un po’ per sfiga, tipo quando individuammo un posto e arrivò una tromba d’aria che ci costrinse a trasferirci in un capannone di un ex mercato ortofrutticolo. Ci furono tre giorni di pioggia, ma andò comunque benissimo, tanto da convincerci ad alzare il tiro ancora di più.
Ma…
Con il cambiamento della Giunta, sono iniziati i primi problemi con la politica. Abbiamo attraversato dei momenti in cui siamo stati ostracizzati e ostacolati, anche come una sorta di “risposta” a quello che avevamo fatto nei primi anni.
In che senso?
Noi non siamo mai stati schierati politicamente, nel senso che non avevamo un bollino di un partito sui volantini. Però è ovvio che le persone che facevano parte dell’organizzazione fossero comunque attente a fare le cose in un certo modo. Quindi è stato facile che il festival fosse etichettato come evento di sinistra. All’epoca ci dicevano che eravamo una massa di fricchettoni e drogati comunisti-anarchici. Comunque, abbiamo iniziato una peregrinazione e siamo arrivati al Parco delle Naiadi. Abbiamo fatto degli eventi in giro per la città quando non riuscivamo a organizzare il festival estivo, finché non approdiamo al Parco della ex Caserma di Cocco, dove ci sono state due bellissime edizioni. Il festival ha iniziato a prendere una visibilità diversa e siamo stati di nuovo ostacolati.
Dopo una serie di pressioni e anche grazie alla nostra capacità di comunicare e narrare il festival in città, di fare rete con persone anche molto diverse da quelle che c’erano all’inizio, il festival si è espanso come un tentacolo. Siamo diventati la rappresentazione di una parte della città, che come risposta ha completamente sposato l’evento. Negli anni siamo diventati un festival musicale molto vario da un punto di vista musicale, molto inclusivo anche nell’approccio. Siamo riusciti a tornare al Parco della ex Caserma di Cocco e veramente solo la pandemia ci poteva fermare, ma è andata così.
Ti interrompo perché voglio fare un salto indietro. Hai accennato a come il festival sia cambiato negli anni. È sempre difficile individuare i momenti esatti di un cambiamento, ma rileggendo le varie lineup e descrizioni degli eventi, mi ha colpito un dettaglio.
Nel 2007 avete una giornata in cui il gruppo di punta sono i These New Puritans. Sottotitolo della serata è “dance night… si balla”.
(ride) Dove l’hai trovata questa?
Spulciando si trova tutto. Ma dicevo che mi ha colpito, perché ricordo anche io che in quegli anni dovevi schierarti un po’ di più negli ascolti. O eri rock o non lo eri. Oggi è più facile che la gente ascolti un po’ di tutto.
Negli anni ho imparato che questa divisione tra generi musicali accadeva solo da un lato: erano i rockettari che non andavano a ballare, mentre il mondo del club, dell’elettronica e della dance era più propenso a frequentare anche il mondo del rock. Ho notato negli anni una certa spocchia e chiusura mentale in alcuni ambienti rock. Questo mi ha spinto personalmente ad ascoltare generi diversi, nonostante venissi da una nicchia ancora più radicale.
C’è voluto un po’ di tempo perché alcune cose venissero accettate in Italia, e tuttora persiste in alcune fasce di ascoltatori del Festival un mal di pancia verso le cose troppo dance o troppo club. Tuttavia, noi abbiamo sempre fatto quello che volevamo. Paradossalmente, quest’anno ho spinto un po’ di più la parte rock per festeggiare i vent’anni del festival in maniera veramente “wide”. Nei limiti del possibile, ovviamente, perché nonostante alcuni sponsor ci abbiano aiutato quest’anno, essendo il ventennale, il Comune mette ancora meno di 1/10 di quello che ci vuole per organizzare l’evento. Ma ho cercato comunque di includere qualcosa per tutte le anime che hanno abitato il festival in questi vent’anni.
E tu riesci ad individuare i vari momenti in cui queste anime sono entrate nel festival?
Sì, assolutamente. Ho iniziato ad inserire una serie di generi diversi già nel 2006. Quell’anno abbiamo fatto esibire Colder, che all’epoca era uno dei produttori dub più rispettati. Non abbiamo mai voluto che il Festival fosse dicotomico, anzi proprio l’idea di mischiare i generi era la cosa che più ci interessava.
La vera svolta è arrivata dal punto di vista pratico con l’arrivo alla ex Caserma di Cocco, perché nel 2009 c’era la necessità di fare un festival arioso in un grande parco urbano, veramente appetibile per vari tipi di ascoltatori. Il nostro motto all’epoca era: “vogliamo vedere i punk con gli anfibi e le ragazze coi tacchi a spillo” al Festival, per creare un ambiente il più naturale, eterogeneo e libero possibile.
E abbiamo fatto questo anche attraverso musica più elettronica. Abbiamo fatto un passo forse più lungo della gamba quando abbiamo iniziato a introdurre un po’ di cumbia al festival e addirittura della roba più reggaeton. Ma tu c’eri in quegli anni e sai bene quanto in realtà fossero comunque scelte politicizzate, con un grande messaggio dietro. L’anno di Miss Bolivia è stato sicuramente un grande momento di inclusività assoluta.
Il 2019, il mio ultimo festival prima di trasferirmi fuori dall’Italia, tra l’altro.
Il senso del mio discorso è che ognuno arriva fin dove può. Mi piacerebbe avere ancora più musica elettronica, sperimentale, e palchi dedicati a questi generi, oltre a coniugarli con proposte più pop. Tuttavia, se ci si trova in una città che non permette eventi fino alle cinque del mattino, senza infrastrutture adeguate o spazi per organizzare after-party, diventa difficile realizzare completamente la visione desiderata.
Probabilmente, in questo caso, abbiamo avuto difficoltà nel trovare i partner giusti o nel far comprendere alla città il potenziale del festival. Senza lamentarsi, è evidente che dopo il festival sarebbe bello poter andare altrove e organizzare un after-party con 5000 persone che ballano fino all’alba, ma non abbiamo la possibilità di farlo.
Negli anni che ho passato al festival ho dei ricordi di te stressatissimo e preoccupatissimo, ma hai dei momenti memorabili che sono cristallizzati nella tua memoria?
Un momento memorabile è legato all’edizione del 2009, la prima al parco della ex caserma di Cocco, con ingresso gratuito che attirava un pubblico diversificato. Ricordo che in quell’anno Federica, attuale presidente dell’associazione e all’epoca mia compagna, aveva fortemente voluto portare il Festival lì, nonostante il parere contrario di molti. Per sciogliere la tensione, mi portò a vedere il risultato: 5000 persone che ballavano davanti al palco. “Guarda che cosa abbiamo fatto”. Quell’esperienza, vissuta insieme alla persona amata dopo aver lottato contro molte difficoltà, è stata molto emozionante.
Tutte le edizioni del festival sono costellate di piccoli aneddoti che mostrano il lato umano dell’evento. Ad esempio, persone provenienti da tutto l’Abruzzo che, anno dopo anno, ci ringraziano per il bellissimo evento organizzato. Altri momenti gratificanti includono le soddisfazioni nel backstage, come vedere gruppi o artisti che si conoscono o si incontrano grazie al festival, dando vita a nuove collaborazioni. Infine, i complimenti ricevuti dall’estero sulla lineup, che a noi sembra sempre esigua, dimostrano che stiamo facendo un buon lavoro e sono motivo di orgoglio.
A me faceva sempre impressione vedere queste orde di volontari giovanissimi.
Sì, la sorpresa di ogni edizione è vedere decine e decine di volontari che si iscrivono per venire ad aiutarci. Questa componente ci fa capire che eventi come il nostro, se sostenuti adeguatamente da istituzioni e privati, potrebbero creare sempre più opportunità a livello lavorativo, economico, turistico, culturale e sociale. L’economia della cultura è ormai diventata una materia universitaria specialistica, e noi – intesi come coloro che hanno cercato di fare cose simili in Italia e nel mondo – siamo stati, se non proprio pionieri, almeno delle cavie in questo campo. (ridiamo)
Mi ricollego un attimo alla storia di te e Federica che osservate le 5000 persone ballare. È una sensazione che ho provato anche io nei miei anni al Festival e che poi è stata per certi versi raccontata da un articolo su uno dei giornali locali che titolava “Non sembra Pescara”. Un titolo che, appena letto, mi entusiasmò molto, ma che dopo pochissimo tempo iniziò quasi ad avere l’effetto opposto su di me: perché quella cosa là non poteva essere Pescara, se non per 3 giorni all’anno?
Esatto, infatti non è un caso che tu sia entrato a far parte della famiglia del festival sotto vari punti di vista. Tra i volontari che organizzano il festival, c’è chi lo fa per motivi personali, chi per amicizia e chi per senso di comunità, pochi altri anche per questioni di gusto musicale. Tu, per esempio, incorporavi molti di questi aspetti, ed hai colto esattamente quella che per noi è sempre stata una sorta di pagina felice ma dolente al contempo.
È vero che ti gratifica sapere che una città provinciale, che vive sempre di quella dinamica auto-denigratoria, riesce ad ospitare un festival di stampo internazionale. Ma il punto è che Pescara merita di essere riconosciuta come una città che può esprimersi culturalmente e socialmente.
Quest’anno volevamo scrivere una lunga lettera al Comune chiedendo perché, nonostante le lunghe chiacchierate con gli amministratori, non fosse previsto alcun finanziamento per il festival. Gli amministratori devono fare i conti con il fatto che questa manifestazione è ormai una parte della città, e per alcuni è una delle più belle, mentre per altri non è interessante. E ci sta, grazie al cielo siamo in democrazia.
Ma sì, questa è Pescara! Una versione più moderna, europea, internazionale. Non è una sagra, ma nemmeno Glastonbury o Primavera Sound. È il fratellino minore di tutti quei fantastici festival grassroots che si svolgono in Europa e nel mondo.
Secondo te, alla fine, ce l’ha fatta l’IndieRocket ad influenzare Pescara?
In un certo senso sì. Vent’anni fa in città c’erano pochi eventi, come il Flaiano e il Pescara Jazz. Con l’arrivo dell’IndieRocket e del Festival della Letteratura, c’è stata una crescita di eventi e festival di varia natura e spessore. Quindi, sicuramente abbiamo innescato un principio virtuoso, incoraggiando altre persone, organizzazioni e associazioni a organizzare festival in maniera dignitosa, interessante e con un senso per la città.
Dal punto di vista culturale, diffondere cultura e arte significa lasciare dei semi che germogliano. C’è stato un periodo in cui, insieme ad altri promoter locali, organizzavamo diversi concerti di gruppi internazionali ogni settimana. Penso di poter dire con serenità che, in quel periodo, alcuni studenti universitari hanno scelto l’area di Chieti-Pescara proprio perché c’era un’offerta di concerti molto ricca, e noi siamo stati parte integrante di quella storia.
Sono sicuro che alcune persone abbiano scelto questa città come meta temporanea della loro vita per questo motivo. Da un punto di vista sociale, l’esperienza del festival ha segnato molti e tutti ne conservano il ricordo.
E dove è il festival oggi?
Il futuro del festival è incerto e dipende molto dal risultato di quest’anno. Abbiamo ancora delle perdite economiche da recuperare, ma non si tratta solo di questioni finanziarie: c’è anche una questione di forze ed energie. Ci troviamo di fronte a un bivio: o quest’anno sarà l’ultima edizione, almeno per un po’ o forse per sempre, oppure ci sarà bisogno di una trasformazione strutturale dell’organizzazione.
Per rendere il lavoro sul festival più facile e sensato, è necessario apportare cambiamenti. Da soli e con le risorse che abbiamo, non possiamo sostenere il festival a lungo termine. Tuttavia, siamo consapevoli dell’impatto culturale, economico, artistico e sociale che il festival ha avuto. Pertanto, il futuro si presenta come una scelta tra la fine del festival o una sua trasformazione.
Voglio chiudere con una domanda che ho sempre voluto farti: rifaresti tutto alla stessa maniera?
Non so se sia egocentrismo o semplicemente realismo, ma tendo a pensare che abbiamo fatto il meglio che potessimo in ogni situazione. Sicuramente, avrei potuto lamentarmi di meno e adottare strategie diverse, cercando di essere più positivo e attrarre diverse energie intorno al festival. Tuttavia, le scelte che facciamo nella vita sono spesso guidate dalle circostanze.
Il festival che abbiamo creato è arrivato al suo ventesimo anno, e forse se avessimo introdotto il biglietto prima o avessimo strutturato la lineup pensando più come promoter musicali che come associazione culturale, le cose sarebbero state diverse. Ma è anche possibile che, in quel caso, ci sarebbe stata meno affezione per l’evento nella città.
Non possiamo sapere cosa sarebbe successo se avessimo fatto scelte diverse, ma probabilmente in un’altra vita e con altre persone, avrei cambiato alcune cose, come l’introduzione del biglietto e strategie di design e marketing differenti. Tuttavia, sono grato per tutte le persone che ho incontrato lungo il cammino, sia quelle che sono ancora con noi che quelle che non ci sono più.
E tutte le persone che abbiamo incontrato e che ci hanno sostenuto, lo hanno fatto perché abbiamo fatto le cose in questo modo.
Quindi, in definitiva, non ho rimpianti. No regrets.
L’intervista è stata editata al fine di migliorarne la leggibilità.
(Carmine D’Amico)