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Era da qualche giorno che avevo questa triangolazione in mente: i National, gli U2 e David Letterman. Perché in questo periodo in cui sono immerso nell’ascolto di “First Two Pages of Frankenstein” mi è capitato di vedere il documentario “A Sort of Homecoming” e ho riflettuto sulla parabola del passare dall’essere la rock band più importante del pianeta al cercare di mantenerne i fasti, come si può, mentre il tempo passa e la gente dimentica, e la capacità di scrivere bei pezzi sfuma. I National non sono mai stati veramente incoronati come tali, però il Telegraph ha appena titolato “How The National became the world’s most influential band”: la tesi è che se Taylor Swift ti acclama come la sua band preferita, Ed Sheeran sceglie Aaron Dessner per il suo album “Subtract”, e la paladina della Generazione Z Phoebe Bridgers canta un paio di pezzi nel tuo ultimo album, beh, allora sei sicuramente molto influente.
Non tutti la pensano così: ho letto in giro molte recensioni tiepide nei confronti di “First Two Pages of Frankenstein” e credo che ciò sia dovuto ad una mancanza di approfondimento: quello che a mio parere è il loro migliore album dai tempi di “Trouble Will Find Me” (2013) è un disco complesso, schivo, tormentato. Le ragioni sono manifeste: non erano necessarie le note stampa che hanno raccontato di un periodo difficile e di un possibile scioglimento della band, bastava ascoltarsi il testo di “Your Mind Is Not Your Friend” o altre frasi sparse qua e là (come ad esempio “Keep kicking yourself to keep from crying” da “This Isn’t Helping”) per capire che Berninger non se l’è passata bene in questi ultimi anni e ha rasentato la depressione. Una fase molto umana, attualmente più socialmente accettata come malattia per cui se ne può parlare senza paura di essere stigmatizzato, che ha coinvolto anche tante persone in periodo di pandemia e che i testi dei National hanno sempre sfiorato, affrontando l’insoddisfazione dell’essere uomo (il bell’articolo “The Sad Men Of The National” su New Yorker cita stralci da “Mistaken for Strangers” come prova di questa sensibilità della band).
Pianoforti mai così chiari e puliti (“Once Upon a Poolside”, con Sufjan, e “The Alcott” con la Swift), finali perfetti per coinvolgere l’audience live (“Tropic Morning News”, con quelle due notine di chitarra che ti danno i brividi, si stampano nel cervello e non ti lasciano più), ritornelli bellissimi e circolari (“You should take it / ‘Cause I’m not gonna take it”) sono solo alcuni dei punti di forza di un album che non ha l’obiettivo di mantenere alta la fama dei National quando quella molto più bassa di non affondare, di ripartire dalle basi, dalle domande piuttosto che dalle risposte, di trovare forza dalle giornate invece che stanchezza. Gli U2 si sforzano di apparire cool, sempre sul pezzo, sempre i numeri uno, i National fanno quello che riesce loro meglio, scrivere canzoni come una seduta di psicoanalisi. Il fatto è che nel primo caso gli U2 non comunicano più, e invece Berninger si mette a nudo per cui non puoi far altro che osservarlo, e corrergli incontro per abbracciarlo. Perché è come te, è come tutti noi, è fragile, è umano.
E così in tutto questo baillame di pensieri ho riflettuto che è solo David Letterman che salva gli U2 nel documentario, lui che all’apice della carriera ha voluto rifuggire dai riflettori perché forse non aveva più gli stimoli giusti, e quindi – in maniera altrettanto umana – si aggira per Dublino conversando con i negozianti, i bagnanti, insomma con le persone. Facendo cose normali, come fanno i National in questo “First Two Pages of Frankenstein”: scrivono canzoni, come hanno sempre fatto, la questione è che scrivono ancora belle canzoni, quello che non riesce più agli U2.
Ecco, in quel momento ho pensato che ci sarebbe voluto piuttosto un documentario in cui David Letterman girasse per New York con Matt Berninger, e ho deciso che avrei chiuso la recensione, che da giorni mi girava in testa, in questa maniera. Poi ora che mi ero deciso di scriverla mi spunta fuori una dichiarazione di Letterman di ieri ripresa da Stereogum in cui il presentatore dice molto chiaramente: “Vorrei essere Matt Berninger, perché nessuno è più figo di Matt Berninger e dovrebbe essere nella Hall Of Fame”. Bene, ora caro David fai questo documentario, perché io voglio vedere l’umanità e la graffiante autoironia di te e Matt che conversate e che camminate con New York sullo sfondo, su una panchina che guarda l’East River, in una caffetteria di immigrati italiani, in un qualsiasi angolo di quella meraviglia di città che Berninger ha riscoperto dopo esserci ritornato dopo il suo trasferimento a Los Angeles del 2014. E raccontatemi, soprattutto, della magia malinconica dei National e di come si può essere i numeri uno semplicemente essendo se stessi e non nascondendo le proprie debolezze.
82/100
(Paolo Bardelli)