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#my2cents
(rubrica di pensieri personalissimi in libertà, estemporanei o documentati, comunque – a modesto avviso dello scrivente di turno – interessanti, razionali e possibilmente acuti; in ogni caso argomentati)
È il momento dei CCCP, e non si può che esserne felici, però forse è tempo anche di fare qualche considerazione ulteriore a quella che possa essere una celebrazione agiografica della band reggiana. La mostra “Felicitazioni! CCCP – Fedeli alla Linea 1984-2024” ai Chiostri di San Pietro di Reggio Emilia è uno di quei rari casi in cui luoghi di cultura sono dedicati a una rock band, e lo sono quando i relativi componenti sono ancora in vita e anche nella propria città (nessuno è profeta in patria, ma alla fine i CCCP lo sono stati). Le giornate di sabato e domenica scorso si sono manifestate come cruciali: il “Gran Galà Punkettone” si è rivelato non solo un momento per analizzare il passato, così come la presenza di giornaliste quali Daria Bignardi e Alba Solaro avevano fatto intendere, ma anche quello (quasi insperato) di sentire proprio i CCCP dal vivo, come in effetti i quattro hanno fatto suonando nove brani. Se lo chiede lo stesso Ferretti nelle note di presentazione del “Gran Galà”: “Questo cos’è? la reunion di una band scomparsa? il crogiolarsi nella nostalgia? ostinazione? un monumento funebre con annessa certificazione di morte? Stati d’Agitazione Gran Punk Gala immagini e parole”. Mi hanno colpito soprattutto questi ultimi due concetti: “immagini e parole”. Manca la parola “musica”. È una dimenticanza? Forse no. È voluto? Forse sì.
A mio parere i CCCP Fedeli alla Linea – e in questo la mostra lo attesta plasticamente e non dico nulla di straordinario – sono stati molto più di un complesso musicale integrando in sé la danza e il gusto per la performance in senso lato, ambiti ovviamente riservati e coperti da Annarella e Fatur, e oltre a questo hanno rappresentato un immaginario prevalentemente estetico e politico (lo diceva Ferretti negli anni ’80: “Di conseguenza scegliamo l’Est, e non tanto per ragioni politiche, quanto etiche ed estetiche. All’effimero occidentale preferiamo il duraturo“). Questa specifica sul “duraturo” è fondamentale per capire Ferretti nel suo percorso di vita ed ideologia: nel periodo dei CCCP il “duraturo” era quell’immaginario, poi lo è diventata una sorta di impegno civile nel periodo dei CSI fino arrivare al quasi-misticismo dei PGR e oltre. Come ha detto Giorgio Canali, Ferretti non è mai cambiato e chi ha criticato i suoi successivi posizionamenti ideologici non l’aveva capito nemmeno prima. Tutto questo per dire cosa?
Che se ci può essere un rischio in questa celebrazione dei CCCP, quello è da individuarsi nella tentazione di riportare le lancette dell’orologio all’indietro rischiando di far riposizionare l’attenzione dei più distratti su quel mondo perduto in cui l’Est si contrapponeva, stoico e solido, all’Ovest, rimpiangendolo. E sappiamo bene cosa voglia dire questo se lo traduciamo nella piccola politica italiana: si innescano quei meccanismi di “nostalgia” della sinistra “da Partito Comunista” terribilmente fastidiosi perché fuori dal tempo (e dalla maturazione ideologica o comunque dalla parabola di fatto del pensiero di Ferretti). La “fauna” presente alla mostra sabato scorso mi ha infuso un po’ di quella sensazione (l’ha descritta magnificamente Federico Giannini su Le Finestre sull’Arte: “vecchi comunisti male in arnese che nonostante l’età faticano a rinunciare alle braghe corte e al field cap… giovani punk con la reflex al collo e il mazzo di chiavi d’ordinanza che pende dal moschettone attaccato ai pantaloni… Impiegati in jeans e camicia azzurra che hanno appena finito il turno in ufficio nine-to-five e sciamano a riverire il gruppo che ascoltavano da ragazzi…”).
Personalmente sono sempre stato maggiormente affascinato dal Ferretti che canta (e maledice e scomunica), in presa diretta, i roghi dei libri della biblioteca di Sarajevo, piuttosto che quello che va da Maurizio Seymandi con Amanda Lear, ma non vorrei nemmeno io cadere nell’errore di fare “cherry picking” con il Ferretti che più mi si addice, e quindi vado oltre questa considerazione parossistica.
Quello che mi dispiacerebbe passasse come messaggio di storicità è che erano più importanti le performance dei CCCP rispetto ai picchi musicali dei CSI (e PGR), perché io non credo che lo siano e forse non è quello che Ferretti vorrebbe di lascito. La mostra e la reunion dei CCCP, per come la vedo io, è molto di più una storia di riappacificazione tra persone che si erano divise, di amici che si ritrovano e si riabbracciano nell’ultima fase della propria vita, per non avere rimpianti, che un’attestazione dell’attualità dell’immagine dei CCCP e della volontà di riproporla da parte dei CCCP stessi.
Se ci limiterà a esaltare la parte visuale e di contorno del progetto CCCP, saremo rimasti as usual sulla superficie delle cose; se invece la mostra (e il Galà) avranno fatto interessare qualcuno ad approfondire tutto il percorso di pensiero di Ferretti, e non solo la “fase-CCCP”, allora – ecco – davvero si sarà raggiunto un obiettivo complesso e sfidante e, a mio parere, più completo.
(Paolo Bardelli)