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A me il maledettismo non è mai andato giù. Quelli che cantano le vite spericolate, quelli che la candela la bruciano da due lati, ecco quelli lì non toccano le mie corde, perché preferisco gli introspettivi, gli sfigati sorridenti. Bene, il disco di cui parlo, nel caso qualcuno ancora non lo sappia, non è esattamente ispirato all’indie pop scozzese: è un pugno nello stomaco, e mentre sei a terra senza fiato ti arriva come un calcio nei maroni. Parla di gente che fa a pugni con la vita, con Dio e con i santi, che getta l’amata in fondo a un pozzo e poi si sbronza e dorme per terra come i cani. Di gente che ha perso la memoria, un amico: che, comunque sia, ha perso. La cosa curiosa è che questo primo album del Teatro degli Orrori mi è piaciuto, e mica poco. Come mai?
Cominciamo dal nome della band: questi qua non si atteggiano, non hanno un’immagine, non gliela ritagliano addosso i giornali scandalistici; questa è una Messa in Scena vera, è una rappresentazione, e loro sono attori. Questo non significa che i personaggi, le storie siano necessariamente inventati: al contrario, che vanno presi sul serio, perché fare Teatro è come immolarsi, come offrirsi in pasto all’uditorio. Il capocomico si chiama Pierpaolo Capovilla ed è il leader degli One Dimensional Man, dai quali si porta dietro la sezione ritmica (con l’ex Giulio Favero), su cui si innesta la chitarra di Gionata Mirai dei Super Elastic Bubble Plastic: ci sarebbe la tentazione di chiamarli supergruppo, ma questo li relegherebbe nell’ambito delle parrocchie indie in cui devi per forza sapere dove suonava questo e quello, quindi teatrini. Loro sono Teatro, non si deve fare altro che prendere posto e stare ad ascoltare.
La seconda parte del nome lascia intendere il tenore della rappresentazione: lo spettacolo del Teatro è fatto di provocazione, violenza e disperata voglia di vivere, nonostante tutto: “Vita mia, a noi due!” urla Capovilla nell’incipit dell’album. Nel Teatro degli Orrori c’è molta Tragedia, nella contrapposizione insanabile fra spinta alla vita e la morte come presenza incombente, oppressiva; per ogni tensione verso Eros c’è un vortice che inghiotte verso gli abissi dell’inferno. Non si tratta però delle fiamme eterne dell’aldilà: gli inferni sono quelli costruiti dagli uomini sulla terra, quelli fatti con i mattoni della morale, della religione, dei sensi di colpa, del senso comune… li ho detti tutti? Eppure non è banale retorica antisistema: sono storie di vite vissute e vite possibili, sono le vertigini che si spalancano quando si mettono in discussione le regole precostituite, le cose date per scontate. La voce di Capovilla, invasata, si attorciglia attorno alle parole, si fa ora sarcastica, ora lamentosa. Il suono del Teatro è duro, fatto di ruvidezze metal/punk punteggiate da suggestioni gotiche, ma è tutt’altro che monolitico: come la voce del leader, la band singhiozza, si rilassa a tratti, si inceppa su stop-and-go da vuoto allo stomaco, e riparte con foga hardcore.
L’altra faccia di tanta e tale furia è un senso di vulnerabilità, uno sguardo commosso e impaurito che resta come nota di sottofondo, per poi venire alla ribalta in brani come “Lezione di musica” o “La canzone di Tom”. Qui la rappresentazione diventa elegia di piccoli paradisi inevitabilmente perduti, di bellezze fragili rimaste impigliate per sempre dentro le maglie dell’età adulta.
Per l’opera prima il Teatro degli Orrori ha allestito uno spettacolo potente, disturbante, fatto per scatenare reazioni forti: per questo a qualcuno risulterà indigesto. Per quanto mi riguarda, uno degli album italiani migliori dell’anno.