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Dodicesimo album per Laura Veirs. “Phone Orphans” arriva dopo il dolce e sofisticato album “Found Light” del 2022.
La cantante ha rivelato, nella nota stampa, che ancora non sa se a cinquanta anni e dopo trenta di songwriting, continuerà a scrivere canzoni o si dedicherà ad altro, come la pittura, arte che ultimamente le sta dando tante soddisfazioni.
Partendo da questo presupposto e dal fatto che l’intero album sia frutto di una selezione di 14 brani presi da registrazioni occasionali effettuate al telefono, a casa o in studio e poi lasciate da parte nel corso degli anni, si capisce come ci sia la voglia di mettere un punto fermo e (speriamo di no) definitivo ad un percorso iniziato ormai nel 1999.
Registrate senza post produzione, le tracce non hanno certo la pretesa di essere perfette e mostrano come il processo creativo della cantante sia (stato) spesso variegato. Il loro stato embrionale e la loro semplicità dimostrano come se la musica è semplice il contenuto e la forma canzone in sé può non esserlo.
Temi come il significato della vita, crescere i figli o come, nell’affrontare i propri problemi, anche i più banali, essi possano essere trattati rimanendo nell’essenzialità della struttura dei brani.
In “Rocks of Time” Laura, ricordando la maternità, recita: “Back in those days the hours dragged by/The sun was a yellow slug in the sky/And in a flash six years passed by “, brano cantato come una ninnananna, sottolineando quanto il tempo sembri lento ma poi passi inesorabile e le cose cambino anche quando si rimanga la stessa persona. Questo discorso viene poi traslato nella vita da musicista, dove il riposo è raro ma necessario e il sacrificio è all’ordine del giorno.
Però vista la natura ‘asincrona’ dei brani non sempre la Veirs riesce ad essere così profonda. In altri brani cerca lo spunto altrove come in “The Archers”, adattato da una poesia di Federico Garcia Lorca, dove il ritmo della chitarra acustica e il suono della sua voce vengono lasciate creare uno spazio che evoca “nuvole viola e un fremito pieno di rugiada”.
Sempre in modo discontinuo la Veirs, autodefinitesi “sopravvissuta” alla rottura con il produttore Tucker Martine con cui era sposata da molti anni, viene affrontato “il cambiamento” in maniera decisa. Le scelte obbligate e no, quelle dolorose e all’insegna della ‘liberazione’ sono protagoniste di “Valentine” dove parti di vita quotidiana come: “i tuoi figli stanno bene” , “so che hai fatto del nostro meglio” vengono fuori riconducendosi a fatti fin troppo pratici e reali che deviano la scrittura dalla forza poetica a cui ci siamo abituati ad una più banale, come la vita quotidiana sembra affossarci.
Degna di nota è la strumentale “Piano Improv”, due minuti di riflessione che lascia nell’aria il senso di incompiuto, che apre alla bella “Beatiful Dreams” piena di immagini e speranze.
Altro frammento, ma questa volta ben definito, è la versione a cappella di “Up Is a Nice Place to Be” di Rosalee Sorels, dove il fascino e la delicatezza della voce di Laura sono evidenti nonostante il discutibile senso del brano “meglio stare con un’altra persona piuttosto che affrontare la vita da soli”.
“Phone Orphans“ funziona a tratti grazie alla sua veste grezza, ma quando lo fa offre lo spaccato dell’esistenza e il senso del suo essere che la cantante ha vissuto negli ultimi trent’anni.
Il pensiero però va alla migliore Laura Veirs, che dà il meglio di sé quando mescola immagini, visioni e suoni in modo da offrire diversi livelli di comprensione, caratteristica che per forza di cose non è sempre presente in questo lavoro, che risulta buono ma non certo uno dei migliori della sua produzione.
68/100