Share This Article
The Old Oak La vecchia quercia è l’ultimo film di Ken Loach ed è il simbolo del Regno Unito. Ma è anche il luogo dove Robin Hood dimorava con i suoi sodali nella Foresta di Sherwood.
Non a caso il grande maestro ormai ottantasettenne è l’ultimo Robin Hood di questo mondo, a favore dei bisognosi.
Un uomo, un regista, un’umanista, un attivista, che dal suo primo film Poor Cow (1967) ha raccontato storie di povera gente (con i suoi problemi economici, sociali, anche di violenza domestica sulle donne), o di sanguinose guerre civili (irlandese, spagnola, ecc.).
Sempre dalla parte dei più deboli e perdenti con un grande sentimento di solidarietà (è stato amico a lungo di Gino Strada) ed ha partecipato anche alla politica italiana.
Del resto nella sua vita ha fatto sempre parte delle sinistre, come laburisti ed altre formazioni, uscendone volontariamente o fatto fuori da gente che ipocritamente non curava gli interessi delle classi meno abbienti (Tony Blair e Keir Starmer).
Un autore che attraverso racconti minimalisti ha sempre osservato e criticato la realtà nazionale ed internazionale con i suoi sporchi affari liberisti sia finanziari, sia guerrafondai, sia spionistici. Tutta una vita a combattere, dall’alto al basso, le ingiustizie del mondo.
Ha preso premi per i suoi film come Il vento che accarezza l’erba (Cannes 2006) o Io Daniel Black (Cannes 2016) e per la sua carriera il Leone d’oro a Venezia nel 1994, il Pardo d’oro a Locarno nel 2003 e l’Orso d’oro a Berlino nel 2014. Ancora, in questo speriamo non ultimo suo film, colpisce per la sua coerenza e fa commuovere tutti gli spettatori più sensibili.
La parabola di ideologie di sinistra, di lotta di classe, di lotta in generale contro le ingiustizie sociali, si è trasformata in un appello a restare insieme, ad evitare la guerra tra poveri o poveri ed immigrati (proletari inglesi e profughi siriani), con notazioni preziose per capire che quello che racconta accade poi ovunque.
Una globalizzazione che ha perseguito solo il profitto ed ha desertificato intere aree produttive europee, con paesi ormai fantasmi, che contengono le persone rimaste al limite della sopravvivenza.
Con i frigoriferi vuoti e le opere di carità che forniscono scatolame, a livello di animali domestici, con tassi di suicidio per mancanza di speranza o per il bullismo dei più ottusi campanilisti. Quelli che ovunque scrivono “amico dei siriani” o “sei un perdente”.
La storia è quella di un uomo buono T.J. Ballantyne (Dave Turner), proprietario di un Pub in un paese della Contea non metropolitana di Durham (nord est inglese), che all’arrivo di profughi (donne e bambini, gli uomini stanno ancora morendo in Siria) cerca con l’aiuto di una volontaria sociale di fornire un pasto (una o due volte a settimana) agli stranieri ed anche ai bisognosi locali.
Riesumando la famosa frase “Quando mangi insieme si rimane uniti”, un motto che viene da quando negli anni ’80 i lavoratori delle miniere in sciopero per combattere la Thatcher, che le voleva chiudere, organizzavano mense comuni per resistere più a lungo.
Un significato molto diverso, più politico ed impegnato di un’epoca in cui si tentava (forse inutilmente) di cambiare quel corso dell’economia, con i risultati attuali, oggi sotto gli occhi chiusi di tutti.
Emblematiche sono le fotografie-ricordo dei giorni degli scioperi dell’80, appese in una stanza sul retro del Pub, e la proiezione oggi delle foto di una ragazza siriana, entrambe accompagnate da un pasto comune con valenze uguali e solidali.
Attraverso il gestore dell’Old Oak, con una perfetta sceneggiatura di Paul Laverty (collaboratore da tempo di Loach), si percepisce la grande umanità ed i profondi sentimenti che lo stesso regista (quasi in biografia) nutre per coloro che (malgrado i cambiamenti di egoismo individualistico) vogliono ancora credere in un mondo migliore, in cui si possa aiutare chi ne ha bisogno e farsene una ragione di vita.
Una buona dose di ideologia fa ancora bene – vuol dire Loach – e se ci emozioniamo e commoviamo vuol dire che non siamo ancora morti, come tanti.
Fortunatamente, come Ken Loach, raccontare l’intolleranza e la xenofobia, comunemente confusi con il razzismo, è l’impegno comune di vari registi sia spagnoli (Rodrigo Sorogoyen), francesi (Emmanuel Carrère), finlandesi (Aki Kaurismaki) ecc..
La paura di persone residenti in un’area geografica che ha problemi di mancanza di lavoro, di reddito e di cibo, nei confronti di nuovi arrivati europei ed extra, con i quali dovranno dividere il poco rimasto, è ormai forte in tante parti d’Europa.
La fine del patto sociale con le tre classi canoniche (abbienti, middle class e proletari) ormai appiattite a livello di resistenza e sussistenza, si sta scoprendo ovunque.
Con i valori immobiliari depressi dalle speculazioni dei grandi gruppi di Real Estate (che nel film comprano tre case alla metà del valore di una).
Le impensabili manutenzioni di ogni tipo (murarie, idrauliche ed energetiche) che il povero Ballantyne vede allontanarsi con l’aumento dei mutui. E soprattutto la fine di quella grande partecipazione alle feste (nascite, matrimoni e funerali) che ancora sono nelle nostre tradizioni, ma sembrano ormai obsolete.
Rimane soltanto una manifestazione finale in cui Ken Loach fa sfilare il drappo preparato dalle donne siriane con scritte in inglese ed arabo con le parole: Forza, Solidarietà, Resistenza.
art a part of cult(ure) è il magazine online nato con l’intento di promuovere, diffondere, valorizzare l’arte contemporanea e più in generale la complessità della cultura nelle sue molteplici manifestazioni.
È gestito da un team di donne. Le ragioni della collaborazione tra Kalporz e art a part of cult(ure) puoi leggerle qui.