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Quella per cui la musica post-rock andrebbe naturalmente accompagnata ad un companatico d’atmosfere digitali e di freddezze mat(h)ematiche è una regola non scritta che a Efrim Menuck e Thierry Amar non è mai andata giù. Non la digerivano ai tempi dei Godspeed You! Black Emperor, che pure del cosiddetto ‘post’ furono profeti, e continuano a non digerirla oggi, come Mt Zion. Tant’è vero che ad un sound già così “concreto” e rigorosamente antidigitale hanno da poco aggiunto un ingrediente definitivo: la voce. E non una voce come un’altra, ma l’ugola sgraziata e irregolare dello stesso Menuck, con come unico risultato un ulteriore aumento del carico di pathos.
Una piccola rivoluzione che in realtà risale già ad un paio di anni fa, in coincidenza di quello che fino ad oggi era l’ultimo episodio nella discografia dei canadesi. Nel frattempo, come da tradizione, la banda ha già cambiato line up e ragione sociale, perdendo per strada la Tra La La Band e guadagnando un nuovo batterista. In termini di suono, i cambiamenti si sentono appena. E’ ben più interessante, invece, notare le affinità e le divergenze che separano il carattere di “Kollaps Tradixionales” da quello del suo immediato predecessore. Se le lunghe composizioni di “13 blues for thirteen moons” erano cerchi concentrici in uno stagno d’acqua, che si propagavano continuando però a girare in tondo, dei nuovi brani si può dire invece che vadano davvero da qualche parte. L’opener “There is a light”, già ampiamente rodata durante la scorsa tournée, pone un traguardo chiaro fin dall’inizio, e ora i più romantici fra voi potranno sbizzarrirsi ad identificare quella “luce” con il nuovo nato nella comune dell’Hotel2Tango, il figlio primogenito di Efrim e della violinista Jessica Moss. Sia come sia, tutti i brani che seguono portano avanti questa stessa indole “progressiva”, nel senso più letterale che si possa dare al termine: dal pezzo portante “I built myself a Metal bird” – che se non suonasse come una parolaccia chiameremmo volentieri ‘suite’ – si arranca su salite faticose, si percorrono strade scoscese (“I fed my metal bird…”) e si scende vero le desolate valli di “Collapse tradixionals”, per poi risalire ancora con il disperato crescendo che conclude “The Piphany Rambler”.
Viste le atmosfere generali, parlare di “luminosità” in senso stretto riesce ancora un po’ difficile. Nemmeno in quest’ultima tappa i Mt Zion risparmiano i toni aspri e drammatici che hanno reso potente il “loro punk rock”. C’è, però, questo inedito sentore di una musica che si muove, che spinge faticosamente in avanti per andare a vedere che cosa c’è più in là: la “luce” annunciata all’inizio magari ancora non si vede, ma senz’altro si scorge, si annusa, la si sente decisamente vicina… E’ anche per questo che vale la pena di sobbarcarsi la magnifica “fatica” di un lungo itinerario a fianco del collettivo, per riuscire a vedere che cosa ci attende alla fine del tunnel.