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In un articolo del 1996 uscito su Pulse! il critico musicale Irwin Chusid conia il termine “outsider music” per descrivere il lavoro di artisti che si opponevano al mainstream non solo nella produzione, nella distribuzione e nella postura stilistica – quello che potremmo benissimo chiosare come “underground”, con tutte le sfumature dei casi – ma anche nella sovversione di alcuni codici che hanno a che fare tanto con le regole associate del fare musica, quanto con cosa considereremmo “convenzionale” tout court o meno. L’etichetta di outsider music – una buona traduzione italiana potrebbe essere “musica disadattante” – è affibbiata all’operato di artisti autodidatti che fanno propria una poetica pseudo-naif e iper-intimistica nella composizione, finalizzando la produzione musicale strettamente a esigenze espressive. Dei buoni esempi sono Moondog, il vichingo cieco che suonava per strada con una batteria di cartone, le straordinarie Shaggs (ammiratissime da Kurt Cobain e definite da Frank Zappa “più grandi dei Beatles”) che suonavano per profezia di una cartomante, o il più noto Daniel Johnston, cantautore anti-folk e pioniere del lo-fi che rappresenta forse il prototipo per eccellenza dell’outsider artist.
Come nel caso dell’outsider o della più antica raw art, a cui il termine deve piena paternità, gli artisti outsider producono musica non avendo contezza dei canoni di composizione formale, posizionandosi come il “di fuori” non solo dell’industria discografica ma anche del mondo dell’arte in generale. È musica che volendo evitare i grattacapi della nozione di “brutto” potremmo quantomeno descrivere come fatta male, sghemba, che non rispetta convenzioni armoniche e ritmiche ma senza vocazione di opposizione a queste.
Ci sono innumerevoli “rinnegati involontari”, artisti a cui manca [una] palese autocoscienza riguardo alla loro arte. Per quanto li riguarda, quello che stanno facendo è “normale”. E nonostante i redditi irrisori e le scarse vendite di dischi, sono felici di fare lo stesso lavoro di Cèline Dion e Andrew Lloyd Webber. La loro voce suona melodicamente alla deriva; i loro ritmi inciampano. Sembrano armonicamente senza ancoraggio. La loro competenza strumentale può sembrare ridicolmente incompetente. Ottengono poca o nessuna visibilità radiofonica commerciale, il loro seguito è limitato e hanno più o meno la stessa probabilità di ottenere il successo mainstream che un opossum ha di sfrecciare in sicurezza attraverso un’autostrada a sei corsie. […] Gli outsider in questo libro, per la maggior parte, mancano di autoconsapevolezza. Non infrangono sfacciatamente le regole, perché non sanno che esistono.
(Chusid, Songs in the Key of Z: The Curious Universe of Outsider Music, 2000)
Diverse interpretazioni – compresa quella di Chusid – pongono non nel torto molta enfasi sulla malattia mentale o sulla neurodivergenza degli artisti outsider, in una piena compenetrazione fra musica e vita. È certamente vero che sono spesso diventate personalità di culto per la particolarità dei loro vissuti, per il modo in cui il loro essere “altro” miticizza il loro operato, come nelle vite dei santi. Tutt’altro che inconsapevoli, in realtà alcuni di questi personaggi hanno utilizzato la spontaneità della loro devianza per autoaffermarsi in un’industria difficile. Chi meglio mostra questa apparente contraddizione fra ingenuità, sovversione e autentica necessità è forse l’outsider artist italiana più cult di tutte, Mara Vittoria Solinas in arte Maria Sole, risorta al “grande” pubblico di recente grazie al lavoro di pubblicazione digitale svolto dai tipi di Orrore a 33 giri.
Attrice di spaghetti western, film polizieschi ed erotici negli anni ’60 e ’70 (è in Boccaccio ’70 di Monicelli nel 1962, in Sangue chiama sangue di Capuano nel 1968, solo per citarne alcuni), interprete di teatro sperimentale, poetessa, scrittrice, modella preferita e musa di artisti come lo scultore Francesco Messina – a proposito di santi, è lei la Santa Caterina di Castel Sant’Angelo! – o il pittore Renato Guttuso. La sua produzione musicale è weird nel miglior modo possibile, giocando nei testi fra dadaismo nonsense demenziale (Sono a far pipì, E le mutande di Madonna e di Mariadonna, Regnè-Gnegnè-Gnegnè) e finto avanguardismo (Compagni compagni, Pelo Potere e The Crucified is dancing to Rock ‘n’ Roll). Se parliamo di linguaggi stilistici poi, la sua musica si inserisce nel grande calderone new wave di quegli anni, sia per gli arrangiamenti (alcuni dei quali scritti dal grande Riccardo Zara, compositore di sigle di cartoni animati come Rin Tin Tin, L’uomo tigre o Yattaman) sia per la postura post-ironica che abbraccia tanto l’immaginario cattolico – ama definirsi la “Papessa”, con lauto consenso di Papa Wojtyla – quanto quello erotico femminista degli anni ’70.
Mi chiedevano «Sei per il garofano?» E io rispondevo: «No sono per Dio, una Papessa deve essere di tutti i partiti».
(Maria Sole in un’intervista per Orrore a 33 giri, 2021)
Sul lavorio immaginifico di Maria Sole si potrebbero dire tantissime cose, da quando tappezzò Roma di ventimila manifesti promozionali che ritraevano lei, il suo compagno all’epoca, l’artista Armando Stula, e Bettino Craxi, a quando elaborò un saggio concettuale sui “principi di ogni professione” riuscendo a farsi fotografare con il Duca D’Aosta, Diego Armando Maradona e Luciano Pavarotti (il libro è “Io e i Principi”, uscito per una casa editrice indipendente nel 1988). Diciamo che Maria Sole ha svolto negli anni dei veri e propri esempi di guerriglia marketing, non fermandosi di fronte a niente e a nessuno per promuovere i suoi progetti. È riuscita in sordina a diventare un’icona dell’avanguardia pop nostrana, anticipando temi e contenuti. Giustamente etichettata come “l’illuminata selvaggia”, dal titolo del suo primo disco pubblicato con la Archivak nel 1977, continua indisturbata il suo ruolo di outsider della musica italiana come personaggio di cui sappiamo spaventosamente poco.
Un giorno, forse, il secolo sarà mariasoliano.
(Viviana D’Alessandro)