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Il 2001 ha visto il ritorno di vecchie star impolverate che molti davano definitivamente per disperse. Questo è il caso, ad esempio, dei Depeche Mode, redivivi esponenti di quella new wave anni ’80 che, proprio come un’onda appunto, si è portata via tanti artisti più o meno validi. Così è stato anche per Terence Trent D’Arby, che dopo il fulminante esordio di “Introducing The Hardline…” si era perso in dischi poco incisivi o semplicemente poco rispondenti al gusto del pubblico anni ’90. Dopo circa sei anni di silenzio, il nostro torna con “Wild Card”, un album decisamente riuscito, forse non rivoluzionario ma certamente autentico. Tralasciamo qualsiasi tipo di valutazione sulla scelta di ripresentarsi con il bizzarro nome di Sananda Maitreya (evoluzione spirituale o operazione di re-branding per la “marca” di un prodotto troppo datato?). Ciò che conta è la trascinante “soularità” (concedete il gioco di parole) che traspare dalle diciotto tracce che compongono il disco, canzoni che suggeriscono una ritrovata serenità e soprattutto una voglia incontrollabile di divertire e divertirsi.
Il disco si apre con la canzone incaricata di lanciare Sananda nelle classifiche di mezzo mondo, “O Divina”. E qui non è possibile non sorridere e lasciarsi andare ad un lento ancheggiamento. Il brano esordisce con una sottile intro per sola voce e banjo, per poi sfociare in un soul dalla melodia così trascinante da evocare i Fab Four di “Gotta Get You Into My Life”. Un colpo ben assestato agli scimmiotti techno-soul di oggi che intasano le classifiche. Ma tutto il disco è all’altezza delle aspettative; i brani viaggiano in bilico tra un’anima soul e alcuni spruzzi di rock blues. Così troviamo canzoni come “My Dark Places”, ricamata da cori gospel e da una chitarra blueseggiante, o delicate soul ballad come “Sweetness”, “Shalom”, “Be Willing”, in cui verrebbe da chiamare in causa il maestro Stevie Wonder.
Certo non sempre brilla il sole, e così a tratti la voce di Sananda si fa cupa ed introspettiva nelle tese atmosfere di brani come “The Inner Scream”, in cui il suono della batteria si dilata verso l’infinito e la chitarra (tra l’altro suonata dall’onnipresente Glenn Ballard) tesse sottili trame armoniche, “Suga Free”, accompagnata da archi sintetici e cori monastici, o come “SRR 636”, dall’incedere così rock. Sopra tutti i brani regna incontrastata l’incredibile voce di Sananda, così rauca, così potente, così unica. Il passato ci ha restituito un artista pieno di energia e ancora in grado di stupire piacevolmente. Al di là delle mode e dei nomi posticci.