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Un fiore ispido, difficile da avvicinare, ma con un cuore caldo, pronto a sanguinare: è questo il fiore dell’agave, e non poteva esistere titolo più appropriato per il ritorno sulla lunga distanza di Umberto Palazzo e del suo Santo Niente. Se del tuffo al cuore dato dal risentire un suono tanto amato si era già detto a proposito dell’EP “Occhiali scuri al mattino”, qui la vera folgorazione arriva al terzo brano: “Prima della caduta” scivola ipnotica su chitarre rumorose e battiti tribali, si inabissa su mantra recitati con profondità ferrettiane per poi esplodere di elettricità satura e di voci declamate urlando, come nei primi Massimo Volume. È in questo brano meraviglioso la chiave per entrare nel disco: certe frasi mirano a distruggere l’immagine nichilista che la band ha sempre avuto (“e a metà io divido la rabbia, poi a metà, e a metà ancora”, oppure “il cinismo non ti salverà”), aprendosi a una spiritualità che era a lungo rimasta nascosta.
“Il fiore dell’agave” racconta di vite vissute e sconnesse, del confronto con il mondo, di cose in comune andate perdute col tempo, e ha un suono denso, vischioso, incredibilmente ricco di calore: l’attacco diretto di “Luna viola”, la ritmica gonfia e la sua atmosfera dark, o la melodia più aperta di “Spirituale” testimoniano la voglia di uscire dai cliché del rock italiano dei ’90 per aprirsi a suggestioni differenti e più variegate. Senza dubbio il valore aggiunto del disco è la produzione di Fabio Magistrali, che regala a queste undici canzoni tutte le possibili sfumature dello scuro: “Nuove cicatrici”, ad esempio, è una ballata elettrificata e scompigliata da un drone che appare e scompare, e viene resa solenne nel finale dall’harmonium incastrato tra le chitarre sconnesse; “Occhiali scuri al mattino”, in una versione diversa dall’omonimo EP, è agitata da percussioni metalliche e infarcita di visioni tossiche, citazioni musicali e filosofiche; “Candele” è una torbida litania d’amore, nata da manipolazioni Joy Division e Blues Explosion; “Santuario” soffoca sotto un basso minaccioso e la voce profonda, ricordando una versione più ritmata dei Marlene Kuntz di “Ho ucciso paranoia”. Altrove la band graffia con rabbia, appoggiandosi a ritmiche surf e a spigoli di rumore: accade in “Facce di nylon” o di “Le superscimmie”, brani che alzano il tasso energico dell’album ma che non aggiungono nulla in quanto a profondità.
Aspettavamo al varco Umberto Palazzo e i suoi Santo Niente, scrivevamo un anno fa: l’attesa è stata ripagata con un disco intensissimo, superiore alle aspettative, e, nonostante i sette anni di pausa, realmente capace di aggiungere nuovi tasselli a uno dei mosaici più importanti del rock italiano. Non potevamo davvero chiedere di meglio.