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Iniziano a scostarsi, attraverso un gioco di corde e pesi che salgono e scendono, i tendaggi pesanti di “I Wish I Were A Song” e la visione si spalanca su una scena che la mente comincia subito a popolare di immagini, di volti, di persone che qualcuno forse ha conosciuto oppure ha soltanto sognato, voci aggrovigliate che parlano una sull’altra e raccontano delle storie. Il turbine ci inghiotte, strappa le dita, una ad una, dai braccioli imbottiti della poltrona in ombra e, nel frattempo, lesta come un fulmine, torna alla memoria una sera ancora fresca nella quale, seduti fianco a fianco su sdraie discrete, avevamo fin troppe cose da dire, il riassunto implausibile di una vita intera di strane motivazioni, così immenso che alla fine non dicemmo nulla o solo una minuscola parte, di sicuro la meno importante. Canta Brent Cash “I Must Tell You Now”, sì, ora devo dirti tutto, ma che cosa? Non è facile saltare oltre il silenzio, camminare sul filo sottile di una sfida che chiede soltanto di chiudere gli occhi e rischiare. Si domanda il nostro trovatore, in una delle sue canzoni più belle, dov’è che vanno a finire tutte le gocce di pioggia, qual è la storia irripetibile delle forme più piccole di materia che trascorrono silenziose di luogo in luogo, perchè è lì, in quelle pieghe, che anche la nostra storia rimane impigliata, fino a perdersi del tutto e svanire. “The Heart Will Always Work Alone” squillano ora hammond gentili eppure mentre ci avvolgevamo nella notte come in un mantello tiepido di ricordi, guardando in basso potevano già vedere le nostre gambe ondeggiare su un addio imminente, perchè tu saresti partita presto per non tornare più e se anche fossi tornata, nessuno, nemmeno tu, avrebbe più potuto dire chi saresti diventata al tuo ritorno. Nessuno ritorna. Sembra incredibile, ma ogni tanto la musica di una scuola di tango poco distante si intrufolava nelle frasi e le profumava di ironia amara.
Ma la memoria interrompe il suo soliloquio e ci viene in mente che Brent Cash, il nostro mercuriale illusionista, viene da Athens, una città in cui, per un lungo periodo, si è scritta e suonata gran parte della migliore musica d’America. Lui che, in anni ormai lontani, aveva sentenziato in un piccolo dischetto che “The Most Beautiful Girls In The World Have Unpronounceable Last Names” (come dargli torto?) e che ora ritorna a liberare la propria collezione di usignoli ammaestrati con un secondo album dedicato alla stranezza irrimediabile delle apparenze. L’uomo che, parole sue, vorrebbe dissolversi nell’incanto sottile della propria musica e, come un re Mida felice, diventare così una canzone, vaporosa ed inessenziale, ebbene, quest’uomo (ma esisterà veramente?), con il suo nuovo e folgorante (capo)lavoro, articola la sintesi perfetta di ossessioni e amori musicali senza tempo. I raffinati acrostici di pop da camera che sfarfallavano beati nei retini di Beach Boys e Zombies, così come le miniature bizantine di chi ne raccolse l’eredità a distanza di anni (High Llamas, Louise Phillipe, The King Of Luxembourg, Wondermints, Magnetic Fields), passando per le lacche e gli smalti rilucenti di Elton John, Billy Joel, Steely Dan e Hall & Oates, tutto torna a riverberarsi in “How Strange It Seems”, nella sua schiuma che si stende morbida e giocosa sotto i piedi di una Venere per una volta soltanto nostra. Più che un uomo, Brent Cash, somiglia ad una fabbrica di canzoni, un Brill Building compresso nella fantasia di un unico librettista solitario e scapigliato. Pare quasi di vederlo, mentre, seduto al centro del proprio palazzo d’avorio levigato, immagina e riscrive canzoni come mondi, senza fine. “Don’t Turn Your Back On The Stars” ripete infatti il nostro eroe, tra coriandoli di Benjamin Britten e capricci porteriani, ed è semplicemente incantevole la grazia con cui il suo soffio innesca la forza motrice di orchestre che roteano diligenti nello spazio come piccoli orologi cosmici.
In questo modo la scena si illumina di nuovo. Ecco allora una pista di pattinaggio vuota, in riva ad un lago, una notte d’inverno ormai lontana, e lei che afferra un braccio, lo stringe e chiede solo di lasciarsi scivolare nel buio, lentamente. Bisogna avere il coraggio di fidarsi. Ma prima ancora c’era stata un’altra pista e un’altra notte trascorsa a pattinare su onde di liquore e sentimenti irrefrenabili e prima ancora altre occasioni, altre verità poi smentite e di nuovo riaffermate. E tutto questo solo per separarsi per sempre, come già sapevamo sin dall’inizio, ma senza dirlo. Fu un ultimo ballo su una Grande Muraglia cinese che tutto divide. Così, da una città all’altra, di nuovo siamo costretti ad attraversare da soli un deserto di sabbia che le bussole non scalfiscono. Oh, se fossimo tutti solo una canzone…Play It Again, Brent!
88/100
(Francesco Giordani)
18 Agosto 2011