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Da New York, dal Queen’s, altri veterani al debutto. Oramai faccio una gran fatica a distinguere la produzione hip hop normale, diciamo istituzionale, e quella underground. Una quantità di guru dei club e delle produzioni indipendenti sono usciti in superficie, si sono affidati a label multinazionali e hanno realizzato il primo album per il grande pubblico. Da un paio d’anni a questa parte è la norma, specie a New York. Una prassi benedetta che rinnova l’hip hop, che lo mantiene fresco e vivace anche nelle cattedrali della old school. Il pubblico è pronto, la scena anche europea aveva bisogno di musica nuova e soprattutto di qualità. La magra è finita, pare, di gente abile e intelligente l’hip hop è piena, e adesso è permesso loro farsi avanti. Persino in Europa siamo pronti per il suono nuovo del rap. Ma allora che me ne faccio dei vecchi Screwball?
Gli Screwball, insomma, sono o no underground? Prima mi veniva comodo: innovativo e sperimentale erano gli aggettivi giusti per la scena sottoterra. E sai la gioia, quando un esercito di sconosciuti ha iniziato a pullulare, con musica nuova e di qualità commovente. Ecco, la qualità. Gli Screwball sono maestri del rap. Col microfono in mano, dei maestri di flow. L’album poi gli rende onore, avercene… Ma sperimentali e innovativi, gli Screwball proprio non sono. Nas, avrebbe potuto darci un album così, e Premier ce ne dà ancora. Premier che naturalmente non manca nemmeno qua. Il produttore più ricercato della scena ha prestato le sue dita d’oro anche a questi quattro vecchi debuttanti. Che provengono dall’underground di New York, ma fanno un rap regolare, normotipo. Poca innovazione e sound costante, poche variazioni, una traccia dopo l’altra con il medesimo marchio. Ma dando un’occhiata al cd si capisce quanto il marchio degli Screwball sia prezioso, e profondo. I produttori sono undici, per venti tracce. Oltre agli executive, Mike Heron e Famolari, compaiono un paio di supereroi del mixer. Il già citato Premier, poi Pete Rock, Biz Markie e il grande Marley Marl. I feat comprendono Capone, Mc Shan e il giovane Nature, i più noti. Bene, con tutta questa gente, “Y2K” resta un album omogeneo. Non vorrei che a ‘rap normotipo e povero di variazioni’ fossero state associate sensazioni di noia e potenti sbadigli. Non è proprio il caso, tutt’altro.
L’album c’è, e vale proprio la pena conoscerlo. Magari non è un classico, e nemmeno un capolavoro, ma è un lavoro solido e qua e là appassionante. Il singolo è l’ottimo “H-O-S-T-I-L-E”, di impatto, carino. Esplorando le opinioni di inglesi, francesi e americani in rete ho visto che loro non sono rimasti tanto freddini. Loro ci sbavano, su questo singolo e sull’album tutto. A me è piaciuto molto. “Y2K” deve essere ricordato, insomma non è uno dei tanti di questo ricchissimo 2000. E se fosse uscito un paio d’anni fa sarebbe stato l’album dell’anno, o giù di lì. Oggi invece è un album da possedere, come tanti altri… Diciamo non l’album da portarsi nell’isola deserta. No, diciamo meglio come a Cannes. La Palma d’Oro non possiamo dargliela, ma una sacrosanta menzione speciale sì. Meritata e importante proprio perché a fare grande “Y2K” sono la qualità e l’energia, più che il carisma o il genio creativo. Agli scettici dovrebbero bastare “F.A.Y.B.A.N.” e “Seen It All”, le tracce prodotte da Premier, e l’ultima, “On the Real”, prodotta da Marley Marl. Dedicato a chi pensa che il sound di New York sia morto. E’ vero, stava sottoterra, ma in superficie fa ancora una gran figura.