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L’avevamo scritto: dopo l’album solista di Grian Chatten, “Chaos For The Fly”, uscito l’anno scorso, cosa avrebbero potuto fare i Fontaines D.C.? La tesi era che il cantante avesse anticipato certe mosse della band irlandese di stanza a Londra di modo da delegittimarne, senza volere, il percorso. Ebbene, oggi che ci troviamo di fronte a “Romance”, cosa possiamo dire? Che i nostri dubbi fossero fondati? In parte.
Con “Romance” i Fontaines D.C. si sono semplificati ma non hanno usato lo stesso registro di Chatten: se quest’ultimo si è girato verso il lato da ballata della musica irlandese e più in generale del cantautorato crooner, un po’ come un Nick Cave della ultra-provincia, i Fontaines D.C. hanno reso le melodie più lineari e soprattutto hanno asciugato i decibel, ma senza arrangiamenti kitsch o stravaganti né pianoforti. “Romance” però mette in fila un cambiamento evidente: la mancanza o, meglio, il quasi azzeramento della chitarra elettrica (potremmo dire tranne nella ultra-commerciale “Here’s The Thing” e nella interessante “Death Kink”, che sarà un gran pezzo da suonare live), perché anche quando quest’ultima viene utilizzata lavora sostanzialmente come una acustica, dunque senza molta distorsione. I Fontaines D.C. sono diventati folk, dunque? No, perché le strutture melodiche non lo sono, perché queste guardano pur sempre alla new wave inglese, qualunque epoca si voglia considerare come nuova onda. Se infatti a questo appiattimento sonoro si aggiunge il generale abbandono delle atmosfere scure e dark degli album passati per prediligere un approccio più positivo, il riferimento del passato che suona più consono non sono più i Joy Division (come era in “A Hero’s Death” e “Skinty Fia”) bensì gli Echo & the Bunnymen, richiamati in forma evidente in “Bug” e “Motorcycle Boy”.
Considerando che i singoli pubblicati prima del disco erano specchietti per le allodole, perché sono dei unicum nel disco e fanno un po’ la parte di episodi molto diversi tra loro (“Starbuster” è una riproposizione molto debole dei Kasabian del primo disco, vedi alla voce “L.S.F”, “Here’s The Thing” è piuttosto fastidiosa nella melodia ramones-iana, la migliore è “Favourite” che pare un classico istantaneo anche se non particolarmente originale), il resto del disco punta verso dei lidi piuttosto pacificati e senza scossoni, con una verve innegabile data dal valore indubitabile e intrinseco della band ma senza quel valore aggiunto che ci aspettavamo da loro. Forse avevamo posto troppo aspettative nei Fontaines D.C., chi lo sa. Pensavamo che potessero rivoluzionare il rock e invece si sono fatti solo addomesticare da esso.
Personalmente ho intravisto un guizzo di una strada veramente nuova e diversa in “Sundowner”: se avessero sognato di più come in quel pezzo avrebbero connotato il loro sound di una spazialità fresca e sconosciuta alle loro corde, mentre così pare abbiano “solo” diminuito sull’acceleratore.
Certo, bisogna anche essere oggettivi: la capacità di scrittura è rimasta inalterata e in “Romance” ci sono diverse buone canzoni. L’accessibilità è migliorata e i Fontaines D.C. hanno dimostrato il coraggio di cambiare e andare per la propria strada, di cercare sempre qualcosa di diverso, di non suonare quello che ci aspetteremmo da loro, il che è un’audacia che ultimamente è mancata a tanti gruppi, ma quello che pare corretto attestare, in definitiva, è che i Fontaines D.C. – oggi – sono meno interessanti di ieri.
72/100
(Paolo Bardelli)