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Nella sessione di Q&A appena successiva alla prima proiezione pubblica di Pavements, l’inusuale e straniante docufilm e biopic di Alex Ross Perry sui Pavement presentato all’81ª Mostra del Cinema di Venezia, il regista stesso e il produttore Robert Greene, incalzati dall’intervistatrice, hanno messo in luce come questo progetto sia nato dall’amore per i Pavement e insieme dalla volontà di parodiare la formula – così «unnecessary», come Perry ha più volte ribadito – scontata e mediocre della maggior parte dei biopic. Sarebbe più interessante, afferma Perry a un certo punto – volto serio, maglietta del “Museo degli orrori” di Dario Argento e occhio concentrato su quello che sta per dire –, avere tra le mani un film che mostra come l’attore protagonista di un biopic si sia preparato in vista del biopic stesso, perché se in questo gioco di celebrazioni e di esagerazioni vi è qualcosa di vagamente interessante è il percorso più che la meta incerta e il più delle volte pietosa a cui conduce.
Il percorso, appunto. Il centro di Pavements è proprio questo: un viaggio onirico, quasi allucinato, guidato dall’ironia e dalla passione, nella storia di questi ragazzi di provincia tra California, Oregon e New York – per citare alcuni dei loro luoghi simbolo –, parzialmente documentaristico, che si intreccia con l’inaugurazione in pompa magna di un museo a loro dedicato, la produzione di un biopic, Range Life – che mise en abyme! –, e la preparazione del musical, ideato e diretto da Perry stesso e messo in scena a New York nel 2022, che rivisita le loro canzoni e fa vivere su un palco i loro testi. Già solo osservando l’impalcatura del progetto si comincia ad avvertire un certo mal di testa.
Non è un caso che i primi versi di un brano del gruppo citati nel progetto riguardino il non aver senso, il non (dover) arrivare a nulla. Non è sempre un senso che dobbiamo aspettarci di trovare, sembrano suggerirci neanche troppo sottovoce Perry e i Pavement stessi. In uno dei vari spezzoni d’intervista al gruppo che compaiono, risalente circa al ’95, Stephen Malkmus spiega all’interlocutore che glielo ha appena chiesto che non è vero che i Pavement non cercassero il successo ma che, semplicemente, l’idea che ha uno di successo non è quella che ha un altro e che il successo per qualcuno non è il successo per un altro. Lo cantava, in fondo, in modo più vago e misterioso ma altrettanto incisivo, in “Here”, altro pezzo fil rouge – chiaramente – di questo film, brano centrale per i Pavement e anche per gli attori interpreti del musical, un inno malinconico al più onesto e spensierato desiderio di non volere a tutti i costi i riflettori puntati addosso. Non meno significativi sono alcuni versi estratti da “In the Mouth a Desert”, uno dei pezzi più amati dai fan dei Pavement, e da brani contenuti nell’ultimo disco in studio del gruppo, Terror Twilight, come quelli iniziali e rivelatorî di “Ann Don’t Cry” o quelli più spassosi e insieme enigmatici di “Major Leagues” e di “Spit on a Stranger”.
Non che ai Pavement non interessi il loro pubblico: è semmai vero il contrario, come ben sappiamo. Lo si vede nei momenti documentaristici, sia quelli relativi alla prima fase della band, quella precedente al primo scioglimento, sia soprattutto quelli relativi al reunion tour di due anni fa, uno dei nuclei di partenza e dei temi centrali dell’opera. È prima nella passione con la quale Stephen Malkmus e soci vivono i loro brani nei rehearsals e poi nell’empatia che costruiscono coi loro spettatori che l’opera e la band si fondano, e su queste entrambi crescono ed evolvono. In questa declinazione del film, ripercorrere alcuni dei momenti più significativi della storia del gruppo è ovviamente inevitabile e sarebbe stato un sacrilegio non farlo. Il modo in cui ciò viene affrontato, però, è originale e spiazzante.
Si percorrono come in una scala a chiocciola le tappe più importanti della band, dai dischi di debutto all’esplosione commerciale in Crooked Rain passando per una mai esistita potenziale partecipazione del gruppo all’SNL che viene rifiutata dall’attore che nel biopic interpreta Malkmus, poi dal terremoto Wowee Zowee fino all’ultima tournée del “primo” addio. Colpisce in particolare l’attenzione (giustamente) dedicata al celebre mud incident del Lollapalooza ’95, ampiamente indagato in questo film e al centro di alcuni dei suoi momenti più comici, come l’esposizione degli indumenti originali e mai lavati che la band vestiva quel giorno nel wanna-be museo e la grottesca ricreazione della scena da parte degli attori che nel finto (o quasi?) biopic interpretano i Pavement.
Per non parlare, inoltre, nella deriva demenziale della critica del regista ai biopic, della maniacale preparazione che l’attore che interpreta Malkmus dedica alla creazione del personaggio: si presenta a Malkmus e soci come Stephen Malkmus per entrare al meglio in quel ruolo e desidera parlare e cantare col medesimo tono di voce del leader della band: per questo scopo fotografa l’interno del suo palato dopo averne ottenuto il permesso. Il falso e il vero si corteggiano e galleggiano fino al punto che è inutile domandarsi che cosa sia vero e cosa no, posto che è estremamente facile capirlo: l’amore che il regista e il produttore provano per il gruppo è talmente spontaneo e visibile che fa tenere insieme tutto, e i vari percorsi e temi paralleli si equilibrano e sostengono come in un complicato shanghai.
È nel gioco di specchi, tema in parte trattato seriamente e in parte utilizzato come divertissement per parodiare il genere biopic e riderne di gusto, che quest’opera raggiunge alcuni dei momenti più godibili e intriganti. Oltre alle scene relative al Lollapalooza ’95 delle quali si è già parlato, la bipartizione o la tripartizione dello schermo per porre in parallelo indagine documentaristica, produzione del biopic, organizzazione del musical e preparazione del museo, in sequenze e posizioni spesso diverse tra loro, talvolta corrispondenti, talvolta, sorprendentemente, meno, è uno degli escamotage più interessanti e appassionanti del lavoro, quando brani, voci, sensazioni e sguardi si accavallano e si intersecano fino a farsi un’unità. Ascoltiamo Kim Gordon che racconta di quando i Pavement aprirono gli show dei Sonic Youth. Nelle scene girate all’interno del museo a tributare la band sono artisti che ai Pavement devono moltissimo – Bully, Speedy Ortiz, Snail Mail – e ciò costruisce un cerchio perfetto e lo porta al suo naturale compimento. È una tessitura lenta, oculata e raffinata quella attraverso la quale Perry costruisce Pavements. In esso il tempo sembra non esistere, nonostante i continui e inevitabili riferimenti cronologici, ma continua ad avanzare in modo quasi circolare.
Non sorprende, quindi, che, quando si è ormai giunti alla fine, più canzoni dei Pavement, nella reinterpretazione del gruppo degli attori del musical e di quelli del biopic, si sovrappongano insieme fino a creare una sorta di “unico grande brano Pavement”, un tutt’uno che è – per citare una frase volutamente esagerata che emerge nel biopic – non la storia di una canzone o di un gruppo ma, alla fine, quella di tutta la mankind. Mentre ci si avvia alla conclusione – e ci viene anche ricordato che un’oscura b-side del gruppo, “Harness Your Hopes”, è diventata virale su TikTok qualche anno fa e che il museo del gruppo viene infine chiuso, le parole che erano stampate sul vetro della porta d’ingresso graffiate via lettera per lettera – realtà e finzione finiscono ormai per sovrapporsi, lasciando noi con la nostra realtà e il cinema, come dev’essere, alla sua finzione e funzione, ritornando alla frase con cui inizia il film, il suo vero e dissacrante punto di partenza: questa è la storia della più grande band di tutti i tempi. Vero?
(Report e foto di Samuele Conficoni. L’immagine in alto è tratta da Pavements.)