Share This Article
Sulle spalle dei mostri sacri che lo hanno ispirato, da Neil Young a Bob Dylan, da Nick Drake a Warren Zevon, il tocco poetico ed esplosivo di MJ Lenderman, che brilla dall’inizio alla fine in questo suo quarto progetto discografico in studio, sa coniugare la schiettezza dell’elettrico all’intimità dell’acustico, l’irruenza della gioventù alla saggezza della tradizione; sa, prima di tutto, creare uno spazio per la propria voce, ritagliandole una propria dignità e costruendole intorno un percorso che la rende universale e, cosa per nulla scontata, originale. Manning Fireworks non è un disco facile: il fatto che il rock sia spesso suonato in modo diretto e sfacciato non toglie nulla alla complessità dell’impalcatura dei brani che il disco contiene, stratificati e intriganti anche quando risultano all’apparenza semplici ed estremamente diretti.
In questo panorama è splendido notare soprattutto il modo con il quale Lenderman scolpisce con pazienza e con solida ma umile consapevolezza la propria dimensione di compositore e di performer: dalle forti radici alle quali si aggrappa fa crescere un tronco e dei rami assolutamente avvincenti e mai troppo dipendenti dalle fonti cui guarda. I riff chitarristici, uno dei punti di forza da sempre del talentuoso chitarrista dei Wednesday, sono melodici e ipnotici: ti avvinghiano senza che tu te ne accorga e senza che desiderino veramente farlo. Sanno essere semplici e insieme esigenti, pronti a pretendere dall’ascoltatore concentrazione e attenzione riuscendo anche a divertirlo. Gli assoli, allo stesso modo, non sono mai claustrofobici o forzati ma si alzano spontaneamente dalla forma-canzone che occupano, significativi, sinceri e fondamentali nell’equilibrio del pezzo.
L’ironia a tratti macabra dei testi di Lenderman e la selvaggia adrenalina musicale di numerosi passaggi del disco riescono a coniugare la brillantezza cantautorale del Warren Zevon più arguto alla ruggine mefistofelica del Neil Young più polveroso. Gli stati d’animo che aleggiavano già nei brani del poderoso Boat Songs del 2022, il suo precedente album e il più ambizioso fino a ieri, vivono anche qui. «Some have passion / Some have purpose / You have sneaked backstage to hound / The girls in the circus», canta con cinica rassegnazione, quasi con deplorevole fastidio, nel pezzo che apre il disco e che dà il titolo all’album, un country-folk sghembo che potrebbe sembrare programmatico rispetto agli intenti del disco. Sta vicino alla pira, occupandosi dei fuochi d’artificio, quello che un tempo era un bambino perfetto e che ora è un vero coglione: lo spleen e il senso di delusione che questa straniante introduzione al disco emana è in linea con quello che seguirà.
Dal sacro al profano, dal sublime al volgare – inteso, etimologicamente, dal latino vulgus, come popolare –, la camaleontica e variegata capacità compositiva di Lenderman sa far rimare “hiss” e “piss”, può cantare di videogiochi e non teme di usare parolacce – «jerk» ritorna più volte ed è centrale nella splendida “Rudolph”, diffusa più di un anno fa, nella quale Lenderman cita, con sagace ironia, “Blowin’ in the Wind” quando si domanda «How many roads must a man walk down till he learns / He’s just a jerk who flirts with the clergy nurse till it burns», mentre un frammento di romanticismo si immerge immediatamente nel disagio e nell’assurdo –, e proprio per questo motivo è in grado di far convergere come pochi cantautori oggi l’universale e il personale in un equilibrio precario e grottesco che fa riflettere e al tempo stesso sorridere – nel medesimo brano la voce narrante sembra maledirsi mentre afferma che «I wouldn’t be in the seminary if I could be with you» – e dimostra quanto il presente e il passato siano parte di lui e della sua energia musicale, convivendo non con riluttanza ma, piuttosto, con positiva e grintosa collaborazione.
Se si analizzano bene i brani, in ogni caso, emerge che Lenderman canta prima di tutto di vite normali che possono suonare uniche per la loro inevitabilità: parlano di routine, di piccoli appartamenti in città provinciali, di barche che sono case e di orologi da polso che sono coltelli e megafoni, di noleggiare Ferrari e di cantare il blues, di Clapton come divinità e della testa pelata di Travolta; cantano che ogni giorno è un miracolo, che andare in vacanza tira fuori il peggio di ognuno, di Men in Black, della Mona Lisa e di Guitar Hero senza che vi sia effettivamente un grado valoriale differente in ciò che viene nominato. È uno sguardo attento; è lo sguardo di un ragazzo che spera di trovare una sua dimensione e un suo posto nel mondo, com’è questo disco di Lenderman in relazione al suo percorso artistico e ai generi verso i quali confluisce.
Questo sguardo di Lenderman sa penetrare gli aspetti più ruvidi e fastidiosi della vita di tutti i giorni e delle relazioni sapendo cogliere sfumature e sentimenti niente affatto banali. Cantando del mondo che va in frantumi nella melanconica “She’s Leaving You”, uno dei momenti più classicheggianti e al tempo stesso sconquassanti del disco, il peso della voce di Lenderman e di quello che canta viene alleggerito, nel finale, da una voce femminile che sembra rispondere a quella di Lenderman e, mentre gli strumenti intorno si calmano, pare volergli confermare una volta di più che ciò sta accadendo non è un sogno o un miraggio ma è la pura e dura realtà. La convivialità dolce e folklorica degli States più rurali e autentici emerge di continuo e riecheggia un po’ ovunque nei ritmi, in certi fraseggi, in alcuni approcci chitarristici e in numerose scelte di strumentazione e di arrangiamento. La bucolica “Rip Torn”, il momento forse più viscerale del disco, ne è un esempio evidente: essa si muove tra gli scricchiolii di una cabin del Sud mentre Lenderman avvisa il suo interlocutore che dovrebbe imparare a «How to behave in groups».
Il sound grinzoso e torrenziale del Sud permea anche la magmatica “On My Knees”, dove emergono alcuni dei momenti più brillanti della penna di Lenderman, che, perseguitato dagli incubi, si domanda se «Is it the quiet hiss of a midnight piss or a river turned to cheek?» prima di riconoscere il momento di debolezza che sta attraversando ammettendo che «Wherever you find me / You’ll find me on my knees». Anche se all’inizio della conclusiva “Bark at the Moon”, che con il suo lungo outro strumentale e sognante tocca quasi i dieci minuti, Lenderman confessa «I’ve lost my sense of humor», subito dopo crea un frizzante pun nel distico «I could really use two cents, babe / I could really use the change», prima di invitare il suo interlocutore a non andare a New York perché «It’s gonna change the way you dress». La potenza della parola e la bellezza dell’eco che a essa danno lo splendido arrangiamento e la preziosa chitarra che lo intarsia sono immediati e radiosi.
Per tutto il tempo in cui Manning Fireworks scorre percepiamo che l’ispirazione di Lenderman è un torrente in piena e che i suoi stili compositivi sono in continuo dialogo tra di loro e con il mondo circostante. In nessun passaggio, neanche per un secondo, il disco si perde, né la sua energia si disperde: il legame con la tradizione e l’attitudine iconoclasta del cantautore si sfidano, dialogano e finiscono per collimare. Nella schietta e spesso triste disamina che Lenderman fa della vita, quello che più di tutto resta è l’impressione che valga la pena di fare tesoro di qualsiasi esperienza, dalla più ridicola alla più rilevante: con il suono giusto e con un’attenta ma disinvolta applicazione si può riuscire addirittura a renderle tangibili, vive e degne di essere raccontate.
81/100
(Samuele Conficoni)