#thanks4allthefish!
Quattro uscite recenti con solide aspirazioni contemporanee ma che sembrano affondare le radici in decenni passati. Dischi assai diversi ma accomunabili per il non celato richiamo di sonorità che vanno dai primi ’90 all’inizio dei ’10.
JAMIE XX, “In Waves” (Young, 2024)
Una critica che sento muovere spesso ai big dell’elettronica mainstream è che sono ancorati alle loro produzioni di dieci o quindici anni fa e da lì (i lavori che poi li hanno resi mainstream, appunto) non si schiodano. Vedi ad esempio Caribou, uscito sempre recentemente. Il disco di Jamie xx non si sgancia tantissimo da “In Colours” soprattutto da quel contesto sonoro esistente che lo ha generato e facilitato. In effetti con “In Waves” non inventa quasi nulla e, se vogliamo, in certi momenti accentua la pesca negli anni ’90 e primi duemila (dalle parti dei Chemical Brothers di mezza strada e dei Basement Jaxx). Però quel che troviamo vincente è l’omogeneità, maggiore che in passato e quasi in barba alla girandola di crediti (Panda Bear, The Avalanches, Robyn…)
TORO Y MOI, “Hole Earth” (Dead Oceans, 2024)
Il vero marchio di Toro y Moi è il fatto che ogni disco suona irrimediabilmente diverso dai suoi altri: ognuno è coerente al suo interno ma è connotato in modo da creare una discontinuità fortissima rispetto al disco che l’ha preceduto. “Hole Erth” è la cosa più lontana da “Mahal” che potesse fare, in effetti. Il precedente era un disco psych-rock polveroso, questo invece è proprio in un’orbita trap/hip-hop. Però con le chitarre che emergono in superficie. Lo contraddistingue un approccio melodico vocale scellerato (sulla carta) che si barcamena tra autotune e attitudine pop punk da band degli anni intorno al duemila. E anche se messa così inquieta, quello che anche stavolta Chaz Bundick è riuscito a fare è veramente sorprendente.
GIFT, “Illuminator” (Captured Tracks, 2024)
I GIFT, newyorchesi, sono al secondo album, dopo l’ottimo “Momentary Presence” del 2022. Fanno una musica che sebbene mantenga fede all’area Captured Tracks ha queste connotazioni europee anni ’90 (e antecedenti) dando luogo a un dream pop, psichedelico dall’andamento dritto e quasi kraut. Entrambi i lavori sono pregevoli, forse più discontinuo anche se meno a fuoco il primo, più deciso ma anche leggermente più ripetitivo il secondo. Colpisce positivamente che dei ragazzi di Brooklyn degli anni ’20 riprendano in mano cose né vicine, né esageratamente in auge e lo facciano con la consapevolezza del proprio tempo.
RAHIM REDCAR, “Hopecore” (Because Music, 2024)
Sembra uscito un po’ in sordina questo disco di solo sette tracce ma con in mezzo una specie di suite. Trattasi di chi precedentemente conoscevamo come Christine And The Queens e che oggi è diventato Redcar. Non un salto ma un percorso è quello che l’ha fatto approdare sin qui, come sa benissimo chi ha seguito Chris in questi anni, sia nei suoi tanti lavori che nelle collaborazioni (vedi MGMT recentemente). E la nuova incarnazione musicale ricalca la stessa forza e libertà cui è approdato il protagonista a livello personale. “Hopecore” è bello per quanto spiazza: un disco elettronico e altamente ballabile che sembra spesso guardare in modo passionale e crudo agli anni ’90. “Deep Holes” è una traccia killer che sta tra un dancefloor di 30 anni fa e un’ironica euforia dark wave senza tempo.