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Non volevano stare troppo fermi: la coppia d’oro (attuale) dell’indie-rock, ovvero Rose Elinor Dougall e Graham Coxon, non è stata con le mani in mano dopo il primo, bellissimo debutto omonimo dell’anno scorso e ha subito dato un seguito a quell’album che aveva un po’ sorpreso tutti. Le coppie che stanno insieme nella musica e nella vita non hanno avuto – a dire il vero – molta fortuna, ci sono le eccezioni certo ma è un connubio difficile che viaggia su un sottile strato di ghiaccio. Non la Dougall e Coxon: loro due hanno approfittato della naturale necessità di stare a casa per accudire la figlia, situazione molto classica dei neo-genitori, per sfruttarla insieme nell’ottica del loro progetto musicale condiviso. Bingo. Anche Coxon ha dichiarato di aver utilizzato le pause in hotel durante il tour dell’anno scorso con i Blur per scrivere per i Waeve. Non hanno perso tempo, dunque, e sono tornati con un album in tempistiche degne degli anni Ottanta, quando gli artisti sfornavano più o meno un album all’anno (ma come facevano??!).
“City Lights” si pone in diretta continuità con “The Waeve” però con una maggiore forza propulsiva: i brani diventano più coinvolgenti ed accelerano dove invece in passato avrebbero potuto diventare d’atmosfera: il faro, come ha sottolineato il nostro Maioli nel suo ultimo podcast Indi(e)pendenze Meets Kalporz, è certamente il Bowie del periodo berlinese ma in generale tutta la migliore new wave degli Eighties e il brit pop più ispirato, per un risultato finale che risulta particolarmente peculiare. Merito anche stavolta soprattutto del sax, suonato sia dallo stesso Coxon (come quasi tutti gli altri strumenti tranne gli archi, opera dei The Elysian Quartet), che conferisce al suono dei Waeve un marchio inconfondibile. Produce, come la prima volta, James Ford (Fontaines DC, Arctic Monkeys), il che è una garanzia.
Le canzoni o hanno una marcia in più (“City Lights”, “Moth To The Flame”, “Broken Boys”, pezzi tra il post-punk e la new wave veloce) oppure si specchiano in un lago di meditazione (la conclusiva “Sunrise”, “Simple Days”) ma sempre con una indiscussa eleganza di fondo (“I Belong To…“). Spiccano due pezzi speciali: una è “Song For Eliza May” che è dedicata alla loro bambina, un bijoux che parte con un mandolino come se fosse un cantico medievale e che si avventura in una pop song in cui a un certo punto (minuto 2:47) rimane solo il feedback della chitarra di Coxon che sale, sale, sale fino a creare un climax perfetto. L’altro è un pezzo grandioso in cui la fa da padrone un giro di basso quasi prog (verrebbe in mente il basso del mitico Chris Squire degli Yes) e la batteria suonata da Coxon in maniera del tutto non convenzionale: “Druantia” è come un’invocazione celtica che arrembante si sviluppa con un intreccio magmatico di chitarra e organo, la voce di Rose Elinor che si staglia evocativa, i fiati che spezzano. E alla fine dei 7 minuti e 44 si è sfiniti ma contenti di aver vissuto quest’esperienza straniante in questo mondo parallelo.
Non sappiamo come sarà la resa live di questo album così pieno di idee e di arrangiamenti, ma noi speriamo almeno di avere la possibilità di vedere live The Waeve in Italia il prossimo anno: con un repertorio di questo livello sarà di certo un concerto da non perdersi.
83/100
(Paolo Bardelli)