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“Beneath The Eyrie”, settimo album dei Pixies, lo potremmo definire come quello della stabilizzazione post-reunion per i redivivi bostoniani, in cui si osa nella giusta maniera e senza essere brutta copia di sè stessi.
Innanzitutto Black Francis ha trovato una spalla ideale nella bassista Paz Lechantin, che firma con lui tre pezzi del disco (uno è il primo estratto “On Graveyard Hill”) e lo arrangia qua è là con pianoforte e Mellotron; il concept poi desta curiosità nella sleeve di Vaughan Oliver raffigurante un misterioso oggetto immerso nel buio, che ci porta dove si sono svolte le incisioni, il Dreamland Recording Studio a New York, sito un tempo di una chiesa gotica.
Parlando con l’Indipendent, il leader della band ne sottolinea l’influenza sulla genesi dell’album: “I wanted to intermingle with the spirit world, with life and death and with the mystical and a more surreal landscape”, temi evidenti nel walzer folklorico “This Is My Fate”, tra Cure e Gallon Drunk. Ancor più smithiana – un vero tuffo negli eighties – l’opener “In The Arms Of Mrs. Mark Of Cain”, mentre “Catfish Kate” sembra una copia carbone di una hit di “Doolittle” con le chitarre alzate di volume. Il singolo “Long Rider” è un altro esemplare di Pixies vecchio corso, con la differenza che non stanca e anzi ci piacerebbe ascoltarla nel mezzo di un futuro concerto.
“Beneath The Eyrie” procede tra alti (una “Bird Of Prey” tra Violent Femmes e Gun Club) e bassi (“St. Nazaire”, un pò gettata via), tra virate surf come nell’omonima “Los Surfers Muertos”, cantata dalla Lechantin, e momenti più rarefatti e appunto gotici che caratterizzano “Daniel Boone”. A cui segue l’ultima traccia del disco, si chiama “Death Horizon”: ma qua i Pixies sembrano più vivi che mai, almeno confrontati ai precedenti lavori dopo la riformazione.
68/100
(Matteo Maioli)