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E così anche per Ben Chasny è arrivato il momento di accasarsi con un’etichetta. E’ vero, rimaniamo sempre nel campo del puro indipendentismo e le majors per queste vie non passano di certo, ma se si considera che il passato di Chasny presenta una dozzina di lavori, tra autoproduzioni e lavori per etichette microscopiche come la Pavilion e la Mental Telemetry allora forse il senso di sorpresa nel vedere “School of the Flower” uscire per la Drag City diventa di più immediata comprensione.
Avevamo lasciato Ben alle prese con il lamento funebre e la decomposizione infernale di “Compathia” ed è un piacere ritrovarlo così rilassato, apparentemente pacificato – anche se a ben vedere i loop organistici e i feedback chitarristici che fanno da sottofondo all’elegiaco Fingerpicking di “Saint Cloud” appaiono un avvertimento fin troppo inequivocabile: la pace potrebbe essere solo momentanea -, impegnato a descrivere la scuola del fiore. Come ovviamente preventivabile il moniker dietro il quale si cela Chasny viene di diritto inserito nell’enorme movimento folk che in America va dai Black Forest/Black Sea agli Skygreen Leopards di Glenn Donaldson, e le stesse collaborazioni del signor “sei organi” ne sono la prova: uno split con i Charalambides di Christina Carter, il “Triplane Terraform Vol. 1” con i Magic Carpathians e la Vibracathedral Orchestra.
Eppure, per varie ragioni, appare più facile appaiare il volto di Chasny a quello di Phil Elvrum/Microphones: stessa capacità di mescolare il folk bucolico ad elementi più prettamente rock, stessa volontà di ammantare l’essenzialità della natura di una coperta di rumori e impercettibili variazioni percussive – dovute allo splendido lavoro di Chris Corsano, che esplode in tutta la sua grazia nei tredici minuti tredici della title-track, manifesto programmatico e dimostrazione di una maturità oramai raggiunta sul campo, con quel crescendo ansiogeno che lascia senza fiato a ogni ascolto -.
Insomma l’universo delineato in questi anni da Chasny ha trovato, nella pulizia della registrazione a cura della Drag City, l’occasione per lo scarto definitivo; difficile giudicare se questo lavoro sia o meno superiore a capolavori del calibro di “Compathia”, “Dark Noontide” o all’esordio omonimo risalente all’oramai lontano 1998, certo è che Ben Chasny si conferma una mente brillante, mai banale, neanche quando si trova a lavorare su materiale altrui (“Thicker Than a Smokey”, dal repertorio di Gary Higgins, oscuro cantautore della psichedelia statunitense. Proprio grazie alla Drag City il suo “Red Hash” del 1973 (ri)vedrà la luce) oppure quando si lancia nel più gentile standard folk come nella conclusiva “Lisbon”.
Ben Chasny sembra voler intraprendere la risalita dagli inferi: che la scalata continui ad essergli dolce, se è di questa fattura la dolcezza che ci regala.