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“Dreamstate” è una prova che siamo nel dopo-Covid così come “LP.8” (2022) era l’emblema di essere dentro a quel brutto periodo: se il terzo album della performer gallese era un viaggio introspettivo ingabbiato in una camera, ambientale e particolarmente fermo, ora Kelly Lee Owens è ripartita, è riuscita ad uscire dalle quattro mura (e da se stessa) ed è finita a scrivere un album molto ondivago, che se ne parte da solo per le piste da ballo oppure, se si vuole, fa viaggiare con la mente in un profondo stato mentale onirico, in linea con il suo titolo.
“Dreamstate” è un album di elettronica old style, fatto con linearità techno ma gusto pop, usando i campionatori e gli arpeggiatori quando servono, i lanci alla Chemical Brothers quando ci vogliono e, poche volte, annebbiando l’aria con il consueto marchio di fabbrica scuro della nostra. Ma ora la sua musica non ha più la funzione ipnagogica dell’inizio, di quel capolavoro che è il suo primo album omonimo (2017), si è liberata di lacci e lacciuoli ed è finalmente sbocciata in campo libero: merito delle melodie veramente catchy ma soprattutto della sua voce che si eleva senza troppi effetti, chiara ed condottiera.
Il singolo “Love You Got” ce l’aveva fatto capire di che pasta sarebbe stato quest’album, ma seguono quella direttrice tra la mente e il sudore anche altri brani come “Higher”, “Sunshine”, la bellissima titletrack “Dreamstate” e la ibizenca “Air”, mentre l’atmosfera di passione individuale senza ritmiche particolari viene garantita da pezzi come “Ballad (In The End” (prodotta anche da Tom Rowlands dei Chemical Brothers, guarda caso una canzone tranquilla) e la conclusiva preghiera laica “Trust And Desire”, mentre “Time To” è un esperimento molto fine ’90 con tempo spezzato in controtempo.
Insomma un album che è particolarmente unito senza passi falsi, e che si fa apprezzare nella sua totalità e nella sua progressione. Buona la prima dunque per il cambio di etichetta (dh2, il marchio elettronico dell’etichetta Dirty Hit) che ha dato la possibilità a Kelly Lee Owens di essere magari meno ricercata degli esordi ma molto più focalizzata sul risultato.
Se nello scorso decennio la Lee Owens era solo una promessa, ora è una certezza, e questo grazie (soprattutto) a questo “Dreamstate”.
80/100
(Paolo Bardelli)