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Anna B Savage + Sun Kil Moon, 14 ottobre 2024, Auditorium del Carmine, Parma, Barezzi Festival 2024.
Bisogna partire innanzitutto dal luogo: l’Auditorium del Carmine, che in passato era la Chiesa di S. Maria del Carmine, ora sconsacrata e trasformata appunto di auditorium. Uno splendido intervento (datato 2008) che dà la possibilità di mantenere la bellezza del luogo (un edificio del XIII° secolo ancorché rimaneggiato nel tempo) unendolo alla funzionalità, in primis per l’adiacente Conservatorio di Parma ma in generale per spettacoli come quello che ci consta del Barezzi Festival. Siamo partiti da qui perché la prima serata del Festival parmigiano si è sviluppata dunque nell’approfondimento e conoscenza di luoghi importanti del territorio, per aiutare lo stesso nell’ottica turistica, ma mantenendo la consueta cura nella programmazione.
Dedicata, potrei dire, alla vulnerabilità, declinata nel modo dei diversi artisti della serata. È un pensiero che si è materializzato nelle tre esibizioni e che mi ha portato a pensare che essere artisti significa, come precondizione, essere vulnerabili, esporsi, dare in pasto al pubblico, e cioè a dei perfetti sconosciuti, parti di te e i tuoi sentimenti. Può essere una considerazione banale, ma forse non lo è e non è solo spiegabile con una possibile vanità dell’artista o volontà di essere una “primadonna”. Si sta parlando della vera e reale esigenza di contatto con gli altri, di comunicazione o quantomeno tentativo di farlo. Perché non è detto che chi riceve capisca o contraccambi. Vediamo un po’ come si è dipanato questo percorso.
In apertura di serata si è esibita Nòe, cantautrice siciliana, trapiantata a Milano, vincitrice del Barezzi Lab, che si è aperta senza nascondersi con la sua elettronica delicata. In lei quella vulnerabilità è stata particolarmente elevata, dovuta certamente dall’essere una quasi-esordiente, ma per questo ancor più preziosa. Canzone consigliata: “Come faceva il mio papà”.
Poi è arrivato il turno di Anna B. Savage. È utile partire dalle belle parole che Nicola Guerra le dedicò per il suo primo album del 2021, “A Common Turn”: il nostro collega parlava di “dolore come scintilla artistica” e di “debutto incredibile, sofferto, magico“, mentre sempre un altro kalporziano, Matteo Maioli, l’ha definita come “una voce capace di tutto”. La mia impressione è stata quella in effetti di una vocalità molto particolare, bassa e profonda, e di un atteggiamento di contatto col pubblico che però non riusciva a restituire quello che Anna dava. Lei si contorceva, suonava la chitarra con molto istinto, muoveva la testa sinuosamente come una novella Tom Yorke, ma in fondo rimaneva nel suo mondo, un po’ estranea a quello che succedeva intorno. Aveva bisogno di un ritorno ma si ritraeva un poco prima. Il pubblico apprezzava, ma non so fino a che punto si è creata una liason: ho l’impressione che la mancanza della band della cantautrice inglese abbia influito.
Infine, dopo essere usciti e ritornati all’Auditorium, abbiamo potuto abbeverarci con le parole di Sun Kil Moon, all’anagrafe Mark Kozelek. E qui c’è un altro discorso da fare: sappiamo che siamo stati al cospetto di un grandissimo, di uno che ne ha viste tante e che ha cantato gli States come pochi altri, e in lui la vulnerabilità si è materializzata di più nell’essere un osservatore attento e sincero che però si pone al di sopra e al di là del rapporto con il pubblico. A Mark non interessa cosa possiamo pensare noi, lui racconta quello che gli è successo ma oramai è al di là del bene o del male, semplicemente canta quello che accade. Sono racconti di vita normale, infiocchettati con quegli arpeggi incantatori che solo sui sa suonare (bisogna sottolineare che la sua tecnica chitarristica è sopraffina) e che finiscono con l’ipnotizzare, e che conformano quei testi concreti a una visione anche onirica. Personalmente ho amato tantissimo i suoi due speech, uno su quando da 16enne vide per la prima volta i Jesus And Mary Chain nell’83, nel primo tour americano, e questi suonarono poco per poi scomparire quasi fosse un coup de théâtre, mentre poi seppe anni dopo che semplicemente erano stati male in camerino (mitologia adolescenziale vs. vita concreta adulta). Il secondo è invece il testo di “Calgary”, brano di spoken music contenuto in “All the Best, Isaac Hayes” del 2020 a nome Mark Kozelek, e che è una storia alla “Fuori Orario” di scorsesiana memoria ambientata nella cittadina canadese nel tour del 2019, praticamente un racconto di Joe Fante. Lascio a voi recuperarlo e poi mi dite, per me è spettacolare. Nel complesso due ore e venti minuti di concerto di Sun Kil Moon non sono semplicissime da concludere, soprattutto se uno non è un fan come il sottoscritto, ma devo ammettere che mi sono servite molto per capire l’artista, che si è a man mano lasciato andare e che alla fine era davvero a suo agio e simpatico, il che non si direbbe, credo.
(Paolo Bardelli)
foto di Andrea Amadasi presenti sulla pagina ufficiale Facebook del Barezzi Festival