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#tbt
#throwbackthursday
Nel marzo del 2004, più di venti anni fa, usciva un disco che avrebbe segnato una nuova fase e una nuova, rilevante tappa di quel “rinnovato revival” di art-rock e di post-punk che aveva contagiato sia USA sia UK all’alba del Nuovo Millennio. L’esordio dei brooklyniani TV on the Radio Desperate Youth, Blood Thirsty Babes, uscito su Touch and Go, infuocava un panorama estremamente vivace e trasgressivo che da qualche anno aveva riportato il rock nelle orecchie di quasi tutti. Quando Tunde Adebimpe e David Andrew Sitek, che avevano fondato il progetto un paio d’anni prima, affiancano a sé Kyp Malone e danno alla luce l’EP Young Liars era chiaro quale tipo di impalcatura stessero costruendo, e l’esordio in LP avrebbe proseguito la strada in quella feconda e spasmodica direzione: una ricerca sonora che va verso gli estremi e amplifica drammaticamente il trasporto emotivo e la ribellione liberatoria nei confronti del mondo esterno del trio si incarna in modo paradigmatico e vitale nel loro disco d’esordio, viscerale e matematico insieme.
Ristampato per il ventennale in un’edizione che aggiunge alla tracklist originaria alcuni demo e singoli usciti successivamente al disco, Desperate Youth, Blood Thirsty Babes non smette di sprigionare la sua potenza e il suo risultare attuale e dannatamente concreto. Il rock del Nuovo Millennio stava imboccando una nuova direzione: le chitarre di Malone e di Sitek colpiscono come fossero batterie e riempiono lo spazio come fossero synth mentre inseguono, spettrali, la voce di Adebimpe che si fa anch’essa beat e puro flusso sonoro. Costruito intorno a loop – soltanto in tre pezzi la batteria è stata registrata dal vivo – e testi che, nella loro stessa struttura, sono essi stessi ritmo e percorso, Desperate Youth carica su di sé e dentro di sé un senso di disperazione e di precarietà perenne e impossibile da sfuggire che tradisce, però, una presa di coscienza delle circostanze intorno e una volontà di ribellarsi a esse altrettanto valorose e sanguigne. Il campo di battaglia è la musica e la sfida sonora è a tutti gli effetti fisica e tormentata.
Non è questo, infatti, un disco pen(s)oso e crucciato. Lo è per ampi tratti, nel suo coagulare, nelle liriche e nelle melodie, quella tensione sonica e tragica degli States post 11/9, un perenne memento mori che avanza in un corridoio buio e freddissimo come un morto che cammina e che non trova pace. Non c’è quella rabbia cieca, vendicativa e tristemente calcolatrice e controproducente del governo di Bush che era avviato al bis presidenziale, ma non c’è neppure quel senso di pacificazione e di riflessione che il mondo intero chiedeva agli States; c’è rabbia, sì, ma una rabbia controllata, incanalata verso qualcosa di costruttivo e non di distruttivo, verso un senso di giustizia piuttosto che di rivalsa; ed è un caso curioso, tuttavia, che questa ristampa, anziché in primavera, esca a novembre, a vent’anni da quell’elezione e a pochi giorni dalla vittoria trionfale di Donald Trump. Corsi e ricorsi storici, diranno forse alcuni.
Non che Desperate Youth sia un disco strettamente politico. Lo è, di fatto, ma forse non lo era nelle intenzioni del trio. Lo è per le sue acute riflessioni nei testi, lo è per la fisicità del portamento avant-rock e funkeggiante di tanti suoi brani, dalla psichedelica “Bomb Yourself” alla gemma “Dreams”, dalla tagliente “Wear You Out” alla diamantina “Don’t Love You”, che diventano a loro modo una originale e strana finestra sulla Black Music contemporanea e sul suo legame con quella dei ’70s e degli ’80s, lo è inevitabilmente per il contesto storico caldo e ambiguo nel quale è uscito. Tracce come “Bomb Yourself”, che si accende con la provocatoria e ironica quartina «Bomb your country / Shed no tear / TV dinner / Overfed your fears» non possono non andare in questa direzione, pur nel loro volersi alienare dal contingente per descrivere un panorama sociale e visivo lontano nello spazio e nel tempo. Ciò che, tuttavia, rende così eccezionale e potente questo album è, in primis, la produzione, che mostra tutto il talento di Sitek, dal tocco e dalla sensibilità rare, che lo rendono un vero mago in quel campo. Senza, però, la qualità eccelsa dal punto di vista compositivo dei brani la formula non avrebbe raggiunto questi livelli.
Una delle grandi doti di Sitek, che emerge qua e là in tutto il disco, è la capacità di creare un tappeto sonoro e un panorama musicale immersivo che permette a voce e strumenti quasi di “entrare e uscire” dal pezzo e, altrove, di creare l’impressione di fondersi e poi di distaccarsi, e questa sensazione risulta ancora più vivida ed evidente se si ascoltano i demo casalinghi che sono contenuti in questa ristampa; anche quando i pezzi funzionano già molto bene, come nel sabba incandescente di “Staring at the Sun” o nella minimale ma intrigante “Final Fantasy”, una versione embrionale di quella che diventerà “Bomb Yourself”, manca quella carica osmotica che caratterizza ritmica, voce e strumenti che si percepisce nelle produzioni finali delle canzoni del disco.
Oltre ai demo che ci permettono di ricostruire la genesi di questo LP di debutto e in un certo qual modo anche del precedente EP Young Liars, tra le tracce aggiuntive di questa edizione è presente anche “New Health Rock”, traccia uscita quell’anno in ottobre e sorta di ponte tra Desperate Youth e il successivo Return to Cookie Mountain e l’ancora lontano Dear Science. La carica nervosa del gruppo, divenuto definitivamente un quartetto con Jaleel Bunton, aumenta e il levigato rock che contraddistingue la scrittura della band vira sempre di più verso un funky spaziale e punkeggiante, sfaccettature che caratterizzeranno il sound dei dischi successivi del gruppo. Predicando spontaneità, schiettezza e ironia, i TV on the Radio, nel loro eccellente debutto, sono stati capaci di ricordarci che tutto questo si può fare soprattutto grazie al talento e mai al caso né al caos, lasciando che il cuore e la testa si incontrino e inizino insieme a gettare le basi per quello che arriverà.