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The Necks – Live @ Teatro Comunale di Vicenza, 26.11.2024
C’è tutto un bagliore acquoso intorno a me, una pioggia leggera e sottile che inzacchera il cielo nero e che rimbalza incessante, tambureggiando sui marciapiedi; una linea fredda che sfoca leggermente le luci.
Al Teatro Comunale di Vicenza ci sono i The Necks, ed è a tutti gli effetti una prima; prima volta del gruppo australiano nel capoluogo berico, primo concerto di una nuova rassegna, “Vi Rocks”, che promette di portare in dote alla città e ad uno dei suoi teatri una serie di concerti di band “di confine” e più vicine alla ricerca sonora. Con questa premessa, aprire con gli australiani The Necks è sia un atto doveroso, che coraggioso: il nome del trio è uno di quelli che ormai da anni passa, con buon merito, di bocca in bocca tra appassionati di musica sperimentale, riuscendo però a ritagliarsi un buono spazio anche nelle orecchie del pubblico “indie” e anche jazzistico. Ma sempre di nicchia parliamo, intendiamoci: anche se é una nicchia tricamere. Fautori di una musica strumentale che si dipana su unici set senza pause e che guarda all’improvvisazione come concetto cardine (da qui il sentore jazzistico), alla ricerca dal punto di vista timbrico (il sentore ambientale) e al fraseggio della lezione minimalista – pensate a LaMonte Young – senza dimenticare echi quasi post, i The Necks – rispettivamente: Chris Abrahams al pianoforte, Lloyd Swanton al contrabbasso e Tony Buck alla batteria – planano con dolcezza su Vicenza con due set che, sentiti dal vivo, invitano a lasciare da parte i pensieri d’inquadramento e a vivere l’abbandono acustico della loro musica. Con un solo imperativo categorico: non resistere.
Come spesso capita nella musica minimalista, a dominare sembra sia una sorta di stasi, ma non è cosi: c’è tutto un sottobosco in minimo ma continuo movimento, come un formicaio acustico, che porta la musica alla sua destinazione finale. Destinazione che è ovviamente ignota, sia al pubblico che al trio. Quella presentata dai The Necks nei due set vicentini è una musica che cresce di dinamica in maniera lenta ma costante, innervata al suo interno di molte ramificazioni minime che ne determinano il movimento, frutto di un interplay che ormai – e non solo grazie ai trentacinque anni di carriera assieme – ha raggiunto livelli di empatia impressionanti. Se Abrahams è rimasto molto legato ad un fraseggio per arpeggi – risultando, alla fine, un po’ sottotono – giocato molto su dinamica e velocità, Buck è stato un vero pittore del suo strumento, utilizzando la batteria timbricamente, giocando con risonanze delle pelli, spazio sui bordi, diversi tipi di bacchette, pizzicando i piatti con calma, lasciando che il suono nascesse e “cadesse” (decay music!) da sé. Swanton, dal canto suo, ha retto il gioco degli altri due con delicatissimo sforzo, ma con una robustezza di suono non indifferente. La cosa che mi ha maggiormente colpito sono la pazienza del trio e il loro necessario autocontrollo. Non è tanto e non solo una questione di suonare “non una nota di più”, ma soprattutto di ascolto attento agli altri e utilizzo dello spazio e del silenzio come quarto elemento musicale. Così, la musica dei due set ha assunto le sembianze di una piccola galassia sonora – in effetti, mentre ascoltavo, ho pensato molto a “Coptic Light” di Morton Feldman -, che arriva anche a lambire dinamiche fortissime; come una pianta che, alla ricerca della luce, cresce e cresce e chissà dove arriverà. Ad un certo punto del primo set, a dire il vero, sembrava che da questo crescendo infinito il trio non sapesse bene come uscirne, o come risolvere, come si direbbe in gergo; e devo dire che… non l’hanno fatto. Sono tornati a terra semplicemente giocando sulle dinamiche, lasciando inalterata la tensione che quegli accordi chiamavano da minuti a risoluzione. Un azzardo che sa di saggezza. Poi tutto si è chiuso con qualche nota di piano e contrabbasso e qualche pennellata – un po’ invasiva – di Buck. Il secondo set ha seguito una progressione strutturale abbastanza simile – pur giungendo a risultati migliori a livello di fraseggio complessivo – : cosa che, a mio giudizio, ha gettato qualche piccola ombra di routine sulla complessiva riuscita della serata, pur avendo il trio cambiato registro a livello timbrico – più la batteria che non il piano, devo (ri)dire – e con uno Swanton vero mattatore con delle cavate piantante come legno di larice.
Ed è alla fine, allo scoccare dell’ultima nota, che la musica dei The Necks si rivela. E’ una musica che ti arriva li, seduto sulla sedia e che ti segue anche mentre esci; rimane nei tuoi pensieri. Perché ci ripensi, visualizzi, riguardi nella mente; pensi a tutti quei piccoli movimenti, quelle increspature minime di quel fiume sonoro. E ti rendi conto che il fatto sta in questo: che di tutto questo movimento ce ne accorgiamo solo quando decidiamo di accorgercene; quando, riemersi dall’inconscio, capiamo di essere in un posto completamente diverso da quello da cui eravamo partiti. E proviamo, tentiamo di capire come ci siamo arrivati; abbiamo in mente, nelle orecchie – in questo caso, anche negli occhi – i singoli movimenti che hanno aggiunto qualcosa, ma erano scatti cosi brevi che lì per lì, presi singolarmente, ce li siamo solo gustati, registrando unicamente che si, qualcosa stava avvenendo.
Sempre che poi si tratti di capire. Credo invece che con questa musica sia meglio sentire, nel vero senso della parola; un po’ perché è necessario abbandonarsi, lasciarsi andare, lasciarsi perdere, un po’ perché perdere il controllo delle cose è uno dei migliori favori che possiamo fare a noi stessi. Se i The Necks passano dalle vostre parti – e passano qui da noi abbastanza spesso – , non perdeteveli.