È ancora una volta una donna a conquistare il titolo di miglior album dell’anno, due anni dopo Rosalía, prima artista e prima artista non anglofona che aveva trionfato nel 2022 con il suo potentissimo disco pop “MOTOMAMI”.
Le scelte di Kalporz continuano a riflettere l’eterogeneità di una scena musicale sempre più globale e priva di un vero epicentro geografico. Ci sono album molto coraggiosi e a primo ascolto difficili da metabolizzare, album che guardano indietro ridando fascino a sonorità apparentemente perdute e album più “facili” che rispecchiano in tutto e per tutto quest’attualità musicale contraddittoria e non sempre coerente nelle sue traiettorie e nei suoi trend. Se l’effimero è un aspetto di questa contemporaneità, riuscire a emergere e trovare un certo tipo di consenso è un punto di forza o quantomeno un indicatore per attestare il valore di un’uscita.
Anche per queste ragioni dopo quasi un quarto di secolo (il prossimo anno saranno 25!) continuiamo a concentrare le nostre attenzioni su artisti e artiste non sempre sotto i riflettori, ma che tra uno scroll e l’altro, ci sembrano significativi rappresentanti di questo caotico ecosistema musicale.
20. VAMPIRE WEEKEND
“Only God Was Above Us”
(Sub Pop)
“Only God was Above Us” è un album di insospettabile maturità per un gruppo che si poteva immaginare avere dato tutto in quei primi anni duemila in cui erano sulla bocca di molti, con la solita scarsa attenzione italiana. Ormai adulti, quello che è ora è un trio scrive il suo album migliore, destreggiandosi tra il consueto pop ritmato (vedi “Classical”) e insolite, splendide variazioni sonore, come nella maestosa “Mary Boone” e la dolcissima coda di “Hope”, veri e propri gioielli che dimostrano come il gruppo di New York sia ancora tra quelli con la miglior scrittura musicale contemporanea, anche fuori dalle luci dell’hype: a distanza di mesi questo è con chiarezza un album da portarsi nel cuore.
19. CHARLES LLOYD
“The Sky Will Still Be There Tomorrow”(UMG)
Giunto alla saggia età di 86 anni (!), il sassofonista di Memphis licenzia il disco jazz dell’anno, un’elegia americana sospesa tra passato e presente. Accompagnato dalla crème de la crème del jazz contemporaneo – Jason Moran al pianoforte, Larry Grenadier al contrabbasso e Brian Blade alla batteria -, “The Sky Will Still Be There Tomorrow” è una quieta trascendenza post-bop intrisa di spirito, vita e consapevolezza e che a tratti commuove.
18. ALESSANDRO BOSETTI w/ NEUE VOCALSOLISTEN
“Portraits de Voix”
(Kohlaas)
Alessandro Bosetti, compositore e sound artist italiano con base a Marsiglia e autore di alcuni dei lavori più interessanti degli ultimi anni basati sulla voce umana come il progetto ‘Plane/Talea’, confeziona con l’ensemble tedesco Neue Vocalsolisten un disco di madrigali adattandoli a una scrittura elettroacustica, intorno ai quali dipinge il ritratto di quattro voci, una storia famigliare lunga tre generazioni. Un progetto che ha debuttato sulla scena nel 2021 a Marsiglia, successivamente traslato in una versione radio in Germania e finalmente cristallizzato in una forma album questo Febbraio grazie all’etichetta trentina Kohlaas. Un Grand Tour europeo che testimonia come questi artisti rappresentino l’eccellenza assoluta della musica vocale contemporanea europea.
17. DRAHLA
“angeltape”(Captured Tracks)
La band guidata dalla cantante e chitarrista Luciel Brown torna finalmente da protagonista di questa ultima generazione di artisti rock dove il mordente e la qualità sono andati calando in egual misura. “Angeltape” è infatti fenomenale nell’unire le spigolose peculiarità della tradizione musicale della loro Leeds – di Gang Of Four e This Heat per intenderci – a ganci pop o comunque catchy, che si stampano nella testa senza più uscirne. La voce unica della Brown, una sezione ritmica da paura e l’ingresso di un nuovo chitarrista come Ewan Barr, oltre al ricorrersi del sax di Chris Duffin in quasi tutte le tracce della raccolta assicura dinamicità e originalità alla proposta, che conquisterà tanto i fan dei Sonic Youth quanto quelli degli LCD Soundsystem e Rapture.
16. THE HANDOVER
“The Handover“(Sublime Frequencies)
“The Handover”, l’album di debutto omonimo del trio formato da Aly Eissa (oud), Ayman Asfour (violino) e Jonas Cambien (synth, organo farfisa), è un vortice inarrestabile e imprevidibile: una lunga composizione d’improvvisazione registrata dal vivo e suddivisa, poi, su disco in due parti (part one sul lato A e part two sul lato B). Nell’incrocio strumentale tra i tre musicisti la tradizione musicale, quella egiziana e araba, diventa il punto di partenza di un viaggio sonoro che trascende confini e generi.
15. GODSPEED YOU! BLACK EMPEROR
“NO TITLE AS OF 13 FEB 2024 28,340 DEAD“(Constellation)
L’album è un’opera inquietante e politicamente impegnata. I temi sono inerenti alla crisi umanitaria in corso a Gaza. Il post-rock dei GYBE qui lo potremmo efinire “cinematografico”, travolge l’ascoltatore con i suoni di archi lugubri, chitarre distorte e rari passaggi di spoken word che evocano la distruzione e resilienza. Nonostante lo stile rimanga riconoscibile, il crudo impatto emotivo dell’album e il profondo coinvolgimento sociale lo rendono unico nella storia di una band che non finisce di stupire.
14. REAL ESTATE
“Daniel”(Domino)
“Voglio fare musica che sia divertente e voglio divertirmi a suonare”: queste parole di Martin Courtney a PasteMagazine sono esemplificative della semplicità dietro a un album come “Daniel”, il sesto dei Real Estate. Ma semplicità non vuol dire facilità di farlo, vuole dire rendere lineari le cose, non cercare arzigogoli, non complicarsi la vita, il che alle volte richiede molto impegno per semplificare dei processi che magari ci vengono naturali in un altro modo (di fatto più complesso). Ma il divertimento è una chiave di lettura e una metodologia utile ad ottenere un risultato più naturale e genuino (leggi recensione), perché le cose vengono “da sole”.
13. THE WAEVE
“City Lights”(Transgressive)
“City Lights” si pone in diretta continuità con “The Waeve” però con una maggiore forza propulsiva: i brani diventano più coinvolgenti ed accelerano dove invece in passato avrebbero potuto diventare d’atmosfera: il faro è certamente il Bowie del periodo berlinese ma in generale tutta la migliore new wave degli Eighties e il brit pop più ispirato (leggi recensione), per un risultato finale che risulta particolarmente peculiare. Merito anche stavolta soprattutto del sax, suonato sia dallo stesso Coxon (come quasi tutti gli altri strumenti tranne gli archi, opera dei The Elysian Quartet), che conferisce al suono dei Waeve un marchio inconfondibile.
12. JESSICA PRATT
“Here in the Pitch”(Mexican Summer)
Il quarto album in studio di Jessica Pratt (leggi recensione) è una spettrale e magmatica riflessione sul sogno californiano, in particolare sulla sua fine, che disegna un’atmosfera sonora onirica e claustrofobica riuscendo a essere al tempo stesso magnetico e invitante. Le seducenti melodie che “Here in the Pitch” srotola nel suo dolce procedere possono essere onirici viaggi in un passato immobile e protettivo oppure gravosi incubi di qualcosa di oscuro che vive nascosto dentro ognuno di noi. Pratt sembra ammettere entrambe le possibilità mentre disegna un dipinto che sa essere tanto lucente e radioso quanto fosco e sinistro.
11. JAWNINO
” 40″ (True Panther)
Ha un ché di grezzo – nel senso di non pienamente ultimato – il disco d’esordio di Jawnino, artista della scena sud di Londra che a maggio è anche stato protagonista della nostra cover del mese. “40”, questo il titolo dell’album, mette in mostra una particolare dimestichezza con la rielaborazione di generi e di influenze musicali: proprio come in un mixtape, si alternano tentativi, tutti riusciti, di dare vita ad un sound che spazia libero e deciso dal grime al dream-pop, dal lo-fi alla new wave, dall’elettronica al freestyle. Se questi sono gli esordi, non posso che essere particolarmente interessato ai futuri sviluppi.
10. MJ LENDERMAN
“Manning Fireworks”(ANTI-)
Sulle spalle dei mostri sacri che lo hanno ispirato, da Neil Young a Bob Dylan, da Nick Drake a Warren Zevon, il tocco poetico ed esplosivo di MJ Lenderman, che brilla dall’inizio alla fine in questo suo quarto progetto discografico in studio, sa coniugare la schiettezza dell’elettrico all’intimità dell’acustico, l’irruenza della gioventù alla saggezza della tradizione; sa, prima di tutto, creare uno spazio per la propria voce, ritagliandole una propria dignità e costruendole intorno un percorso che la rende universale e, cosa per nulla scontata, originale (leggi recensione). “Manning Fireworks” non è un disco facile: il fatto che il rock sia spesso suonato in modo diretto e sfacciato non toglie nulla alla complessità dell’impalcatura dei brani che il disco contiene, stratificati e intriganti anche quando risultano all’apparenza semplici ed estremamente diretti.
9. KENDRICK LAMAR
“GNX“(pgLANG)
Kendrick Lamar, dopo il beef con Drake che ha sconvolto il web, sembra aver recuperato quella affilata anima da West Coast che più di dieci anni fa l’aveva lanciato come rapper più promettente del pianeta.
Dodici tracce, quarantacinque minuti per quello che in un’ottica rigorosa sembra rientra più nei canoni del mixtape che in quelli dell’LP. Poco importa perché con SZA, unica star di un certo rango nei feat. di due dei brani più emozionanti (“luther” e “gloria”), e con la produzione del Re Mida Jack Antonoff ha coinvolto, questo d’amore a Los Angeles lascia il segno. Senza manie di grandezza, con una scrittura molto spontanea e immediata e grazie al coinvolgimento di molti nomi emergenti dell’area quali AzChike, Dody6, Hitta J3, Peysoh, Roddy Ricch, Siete7x, Wallie the Sensei, Lefty Gunplay, YoungThreat, Deyra Barrera, Sam Dew e Ink. Un po’ come avrebbe fatto tempo fa un Dr. Dre. Tutto suona maledettamente Kendrick e chissà che qualcuno di loro tra qualche anno non si affiancherà al suo trono.
8. NALA SINEPHRO
“Endlessness”
(WARP)
Alla sua seconda prova su Warp la ventottenne compositrice, arpista e pianista belga di origini caraibiche e di stanza a Londra dove si è avvicinata al mondo del clubbing e dell’elettronica riesce ad abbattere i confini tra jazz e ambient con un disco dal titolo abbastanza autoesplicativo. “Endlessness” non può non ammaliare anche chi, tra gli appassionati di uno tra questi due mondi, è ben lontano dall’ascoltare l’altro, per tradizione o background. “Endlessness” si distende in quarantacinque minuti strumentali e 10 suite denominate “Continuum” dall’andatura molto cinematografica. Le incursioni dei modulari appaiono e svaniscono come meteore e ci si finisce per emozionare nei momenti più inattesi grazie a crescendo orchestrali avvolgenti e al sax di James Mollison.
7. JAMIE XX
“In Waves”
(YOUNG)
Negli ultimi anni tutti e tre gli XX hanno pubblicato un disco a loro nome: se quelli di Romy e Oliver erano più che interessanti, il secondo vero disco solista di Jamie, mente creativa del gruppo è il suo viaggio personale e definitivo dentro alla musica da ballo: un incastro spesso geniale e sempre interessante di contaminazioni tra elettronica, campionamenti soul, sguardi alla cultura rave e puro senso del ritmo declinato in dodici brani che sono una piccola enciclopedia della classe di Jamie. Lontano dai suoi contemporanei, come sempre immerso in una propria ricetta sonora: In Waves è la conferma di un talento diverso dagli altri.
6. MABE FRATTI
“Sentir Que No Sabes”
(Unheard of Hope)
Nel suo quarto LP compositrice e violoncellista di origini guatemalteche classe 1992 attualizza in un ecosistema pop molto contemporaneo le sue mini-suite oscure, malinconiche e a tratti ancestrali regalando un seguito altrettanto ambizioso al promettente “Se Ve Desde Aquí”.
Il risultato è un’alchimia di atmosfere sospese e senza tempo.
5. CINDY LEE
“Diamond Jubilee”(Realistik Studios)
Come hanno scritto i nostri partner brasiliani di SCREAM&YELL nella recensione che abbiamo tradotto e ospitato sulle nostre pagine, pur evocando pop classico e psichedelia, Flegel forza gradualmente la collisione di vari generi, dalla musica africana, al funk, al soul, all’elettronica, all’indie rock e alla psichedelia più sperimentale, tutto attorno all’ultimo LP di Cindy Lee ruota un’esperienza il cui tema centrale somiglia di più a come noi ci relazioniamo con gli album e a come li “consumiamo” che alla natura stessa dell’album.
Il primo istinto porta alla parola “consumato”, ma sembra completamente opposta a come Patrick Flegel vuole che il pubblico si relazioni con “Diamond Jubilee”. In ogni momento dell’album, è presente l’impressione di ascoltare una radio in uno spazio liminale. Nulla sembra esistere mentre le canzoni suonano, l’ascoltatore sembra rimosso dalla realtà.
4. THE CURE
“Songs of a Lost World”
(Fiction)
I Cure hanno avuto un destino riservato a pochi: quello di essere riconosciuti ed amati in sei decenni diversi. Tra questi alcuni sono considerati cariatidi e altri vati. Qual è la differenza? Che i primi sono citati ancor oggi solo per quello che hanno fatto in gioventù, gli altri continuano a fare album con sempre la voglia di rigenerarsi. I Cure erano nella seconda categoria solo per la voglia che infondevano nei live, e ora sono definitivamente entrati in quel cielo del paradiso che è riservato a quelli che hanno pubblicato in età avanzata dischi che possono stare, nella non più presente cd-teca negli scaffali, onorevolmente fianco a fianco a quelli acclamati di gioventù.
3. AROOJ AFTAB
“Night Reign”(Verve)
La voce dell’anima: con “Night Reign” Arooj Aftab, figlia di genitori pakistani ma di stanza – ormai da tempo – a New York, riesce ancora una volta a coniugare tradizione e modernità: rimanere saldi alle proprie radici sperimentando nuove strade. Il risultato è un album conturbante, ipnotico in grado di stupire, traccia dopo traccia.
2. FONTAINES D.C.
“Romance”
(XL Recordings)
Per gli entusiasti “Romance” non è nient’altro che una prosecuzione con altri mezzi del linguaggio fin qui utilizzato dalla band irlandese, solamente semplificato ma ugualmente bello. Per chi ha storto un po’ il naso invece la diminuzione delle distorsioni e della complessità sonora ha invece tolto fascino alla loro proposta. Quello che certamente rimane, ed è questo lato che è premiato nella nostra classifica di fine anno, è la qualità dei pezzi (tre sono veramente belli, “In the Modern World”, “Sundowner” e, per molti, anche “Starburster”) e il fatto che, se ci deve essere qualcuno a fare proseliti del “rock” tra i più giovani, beh, è meglio che siano i Fontaines D.C. piuttosto che i Maneskin.
1. CHARLI XCX
“BRAT”(Atlantic)
Da tempo non si ricordava un disco in grado di segnare l’immaginario travolgendo ogni barriera e ambito sociale. Con un semplice attributo, BRAT. Impossibile confonderla, immediatamente riconoscibile, straordinariamente brava a cavalcare l’hype, nel giusto equilibrio tra uno sguardo in avanti e un’occhiata indietro, Charli XCX non ha sbagliato nemmeno questa volta. Da tempo non arrivava un disco pop in grado di fare da compendio del recente passato e del presente con una serie così irripetibile di potenziali hit. Durerà? Non durerà? In questo momento non conta, ciò che conta è che non sono usciti album così rappresentativi e potenti in questo contraddittorio 2024 .
KALPORZ AWARDS HISTORY (ex Musikàl Awards):
Kalporz Awards 2023 (Sufjan Stevens)
Kalporz Awards 2022 (Rosalía)
Kalporz Awards 2021 (Low)
Kalporz Awards 2020 (Yves Tumor)
Kalporz Awards 2019 (Tyler, The Creator)
Kalporz Awards 2018 (Idles)
Kalporz Awards 2017 (Kendrick Lamar)
Kalporz Awards 2016 (David Bowie)
Kalporz Awards 2015 (Sufjan Stevens)
Kalporz Awards 2014 (The War On Drugs)
Kalporz Awards 2013 (Kurt Vile)
Kalporz Awards 2012 (Tame Impala)
Kalporz Awards 2011 (Fleet Foxes)
Kalporz Awards 2010 (Arcade Fire)
Kalporz Awards 2009 (The Flaming Lips)
Kalporz Awards 2008 (Portishead)
Kalporz Awards 2007 (Radiohead)
Kalporz Awards 2006 (The Lemonheads)
Kalporz Awards 2005 (Low)
Kalporz Awards 2004 (Blonde Redhead, Divine Comedy, Franz Ferdinand, Wilco)
Kalporz Awards 2003 (Radiohead)
Kalporz Awards 2002 (Oneida)
Kalporz Awards 2001 (Ed Harcourt)