Ispirato da un’antica leggenda popolare della natìa Armenia dal titolo “Hazaran Bibul”, il pianista e compositore Tigran Hamasyan licenzia “The Bird Of A Thousand Voices”, album che di quel racconto – la storia narra della ricerca da parte di un Re e dei suoi figli del mitico usignolo Hazaran, capace di cantare con canto divino – vuole essere controparte musicale. Più che un disco, un’opera vera e propria quindi, che per Hamasyan diventa un considerevole tour de force prog e fusion strumentale.
Ma nonostante le intriganti premesse e le collaborazioni di livello – oltre ad Hamasyan al pianoforte e al synth troviamo, tra gli altri, Nate Wood alla batteria e Marc Karapetian al basso elettrico, oltre a Areni Agbabian alla voce in alcune tracce -, “The Bird Of a Thousand Voices” non riesce a convincere, rimanendo spesso impaludato in ripetitività e lungaggini che appesantiscono il disco. Peccato, perché l’album inizia con un uno/due fenomenale: “The Kingdom” è una vorticosa girandola prog/rock, una giostra impazzita di batteria e synth, mentre “The Curse (Blood Of An Innocent Is Spilled)” è una labirintica sequenza di riff, divagazioni, squarci ritmici – dalle sonorità quasi nu-metal – e vocalismi che guardano alle melodie del folk armeno e dell’Est del mondo; e il tutto sgorga con una naturalezza invidiabile. Il problema è che questi primi due episodi riassumono in sé gran parte della pasta compositiva del disco che, pur srotolandosi furiosamente su ben ventiquattro brani, insiste sovente sui medesimi elementi – a quelli già scritti aggiungete delle sinistramente simili ballate rette su veloci arpeggi pianistici e estatici interventi vocali al confine con un certo orientalismo, come, tra tutte, “Areg And Manushak (He Saw Her Reflection On The Water)” e “Prophecy Of Sacrifice”, più vari intermezzi ambientali che spesso mancano di un’idea musicale giustificativa, vedi l’effimera doppietta “Guidance” / “Flaming Horse And The Thunderbolt Sword”- risultando, alla lunga, noioso.
E non aiuta neanche il fatto che molti dei temi sviluppati in questi primi due brani verranno ripetuti – davvero troppo di frequente – come leit motiv in altri episodi del lavoro. Mi si dirà che questa scelta compositiva non è certo fuori luogo in un’opera dal carattere narrativo come questa; chi lo sostiene ha indubbiamente ragione. Tuttavia, ci si chiede se qualche taglio e qualche reiterazione tematica in meno non avrebbe giovato, sacrificando la fedeltà all’ispirazione mitico-folklorica in ragione di una maggiore scorrevolezza d’ascolto; o se non sarebbe stato meglio, se proprio si voleva musicare tutto, creare qualche tema ulteriore.
Non che manchino altri momenti di pregio: “The Quest Begins” è una devastante scansione ritmica arricchita da un frenetico volteggio di synth che è tra le cose migliori del disco, immediatamente seguita da un velocissimo arpeggio al piano che riesce a mantenere alta la tensione fino al termine del brano; merita anche “The Eternal Bird Sings And The Garden Blooms Again”, ancora una volta un intreccio tra prog e folk armeno sospeso tra vigore e dolcezza, mentre tra le ballad si salva “He Refuses To Be Immortal” che, se non svetta certo per originalità compositiva – siamo sempre sulle coordinate fatte di acquosi arpeggi di piano, come scritto poco sopra – ha dalla sua una linea vocale di fiabesca purezza. Ma è troppo poco: e il tutto si dipana su una rigidità programmatica che diventa formalismo eccessivo, imbrigliando oltremisura le idee compositive di Hamasyan e impigrendo le sue capacità strumentali, oltre che l’interplay musicale dei musicisti tutti.
Alla fine, “The Bird Of A Thousand Voices” lascia l’impressione di un lavoro che, come l’usignolo della fiaba armena, vorrebbe cantare con mille voci, svelando invece di averne in dote ben meno. Un vero peccato, visto che sia la fonte di ispirazione che ha dato il la al lavoro, sia i musicisti coinvolti facevano sperare a ben altro risultato*.
48/100
(Edoardo Maggiolo)
*Per sentire Hamasyan alle prese con un ispirato mix tra jazz, fusion, metal, progressive e folk della sua terra, meglio rimettere sul lettore “The Call Within”, suo album del 2020.