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Ogni anno in media ne esce uno. I “dischi-caso”. Opere musicali, quasi sempre americane (e dintorni), che saltano fuori da un anonimo nulla e cambiano improvvisamente il senso complessivo di un’annata musicale che pareva ormai ben indirizzata verso il suo timido destino. Una volta era il caso di “Funeral” degli Arcade Fire, oppure di “I’m A Bird Now” di Antony, poi forse “Boxer” dei National e poi ancora “For Emma Forever Ago” di Bon Iver. E adesso arriva anche “Hospice” degli Antlers, che a tratti, e come per uno strano paradosso temporale, pare quasi contrarre e ricombinare abilmente dentro di sé le atmosfere e le tensioni mirabilmente irrisolte di tutti gli splendidi dischi appena citati.
Creatura del compositore e polistrumentista Peter Silberman (che ha già dato alle stampe nel 2007, oltre ad ep veri ed eventuali, un primo album dal titolo “In The Attic Of The Universe”, sotto il nome Antlers ma scritto e realizzato sostanzialmente in completa solitudine), questa band (un trio), insediata a Brooklyn, è arrivata ad “Hospice” attraverso la strada sempre percorribile dell’autoproduzione che poi, grazie alla forza virale del passaparola appassionato di fan sempre più numerosi, si è presto tradotta in un contratto con la Frenchkiss e la conseguente distribuzione su scala mondiale, prontamente lubrificata dagli elogi della critica (Pitchfork in particolare e come al solito).
Imperniato sulla vicenda (non priva di agganci autobiografici) di un uomo che assiste alla scomparsa (per cancro) della donna amata, “Hospice” prende corpo come un sussurro inghiottito nel bianco neutrale di un limbo ospedaliero senza fondo, per poi allargarsi nell’epica sofferta di un suono imponente e monumentale, in cui si intrecciano detriti di varia provenienza: dalla respirazione di un cosmo addolorato e sospeso a cui già i Sigur Ros ci hanno ben educato, per arrivare poi allo accensioni spaziali e deliranti di certi dolcissimi Flaming Lips aggrappati al loro candore più infantile, passando per le carezze di uno shoegaze sperso e liquescente in odore dei Pale Saints più densi e accigliati, fino a lambire il miele delizioso degli indimenticati Neutral Milk Hotel.
“Hospice” si presenta così come una sorta di Passione o oscuro Mistero trasfigurante, come una musica che è anche e soprattutto un bellissimo racconto per capitoli e svolgimenti successivi, una storia, possibile e quindi raccontabile solo ed esclusivamente attraverso la forma unica di quella stessa musica che lo sostanzia e che da essa, del resto, appare del tutto indissociabile.
Come se la morte di un singolo fosse in qualche modo e irrimediabilmente la morte di tutto il mondo, “Hospice” declina il suono lancinante della sua lamentazione e del suo lutto, ricordandoci forse che la narrazione (in qualsiasi forma e con qualsiasi mezzo essa avvenga) di un dolore è sempre la prima e migliore cura di quello stesso dolore che tutto nientifica, ad eccezione della nostra concreta possibilità di farne racconto. Non lo dimenticheremo.