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E fu che il bel visino di Beatrice Antolini iniziò a capeggiare su riviste cartacee e non, a dimostrazione che il grado di attenzione e di valutazione sonora è alle volte molto più legato alla fotogenia che alla materia (quella grigia dei mass media latita). Partiamo da una considerazione conclusiva nell’approcciarci a “A Due”, la seconda fatica discografica della cantautrice marchigiana, perché è evidente quest’ansia collettiva di eleggere la Antolini a nuova icona femminile dell’indie in virtù di qualità che invece, crediamo, non sono ancora state dimostrate.
Oddio, la Antolini è brava a suonare il piano, la sua proposta infantil-orrorifica da carillon rotto è sicuramente – se non originale – quantomeno interessante, ma ascoltando bene “A Due” non si può fare a meno di essere colpiti da un’inenarrabile stanchezza, tutto è troppo tronfio e forse andrebbe bene per una colonna sonora di uno spettacolo teatrale tipo “The Rocky Horror” ma non per un disco che si debba bastare a sé. Il fastidio cresce a tal punto che quando si arriva a “Pop Goes To Saint Peter” – track numero 7 – si viene assaliti dall’irrefrenabile voglia pronunciare la fatidica parola “basta”. Invece lei va avanti imperterrita tra lo shuffle caotico di “Sugarise” e la depressione totale di “Taiga” (abbellita solo da 30 secondi – finalmente! – onirici, quando Beatrice non canta, dal minutaggio 4’15’’ al 4’45).
Amplificando a mille i barocchismi che invece gli …A Toys Orchestra riescono sapientemente a misurare, la Antolini si autorappresenta come una bambina capricciosa che desidereresti zittire all’istante, di quei cinni antipatici perché sanno tutto loro.
“A Due”? Bisognebbe cambiare la “A” con un bel “Che”.