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Può una voce aliena, talmente originale e difficile da catalogare da apparire virtuale e sintetica, rappresentare la memoria storica e il calore di un secolo di musica americana? Può un personaggio bizzarro e assolutamente fuori da qualsiasi cliché ergersi a simbolo della classicità? Sì, se l’oggetto del contenzioso si rivela essere Antony. Come al solito accompagnato dai suoi Johnsons, l’albionico cantautore dal timbro a metà tra le profondità oceaniche di Nina Simone e la più eterea delle voci bianche, torna a squarciare i veli della musica contemporanea. E lo fa raggiungendo picchi impensabili.
Chi ha ancora nelle sue orecchie lo splendido album d’esordio (pudicamente intitolato “Antony and the Johnsons”) si rassicuri: Antony per il momento non sbaglia un colpo. Certo, il tempo è passato e ha portato novità non indifferenti; c’è stata la tournée mondiale al seguito di Lou Reed, colui che l’ha scoperto casualmente e l’ha fatto ben inquadrare dalle luci della ribalta, c’è stata la partecipazione – minima eppure realmente indimenticabile – a quel film dimenticato, mal venduto eppure così carnalmente vivo che è “Animal Factory” di Steve Buscemi.
Sarebbe assurdo pensare che tutto questo turbinio di eventi sia scivolato via senza lasciare traccia: l’Antony che dà alle stampe “I Am A Bird Now” è un cantante ben più consapevole del proprio ruolo e della propria importanza. Eppure questa consapevolezza non sembra aver portato con sé alcuna scoria, fortunatamente: lo splendore estatico della pianistica “Hope There’s Someone” si trasforma in acclamazione pura quando le scale strumentali si fanno convulse e la voce diventa un tappeto sonoro su cui stendere le emozioni. Un tracciato musicale che rimanda allo straordinario “Torment and Toreros” creato dalla mente geniale di Marc Almond una ventina d’anni fa. La voce anticipa sempre la musica, come se Antony rimarcasse quello che è il tratto peculiare della sua esperienza musicale.
Profondamente attaccato alla struttura classica della musica – trame pianistiche rafforzate da batterie standard e crescendo di archi – Antony trasforma la norma in rivoluzione nel momento stesso in cui appende a questi stralci musicali la sua voce apolide. E con “For Today I Am A Bouy” raggiunge uno dei picchi della sua carriera, con continui raddoppi e una musica che si fa vigorosa, quasi impossibilitata a volar via eppure cocciutamente alla ricerca della libertà. Di tutti i vizi e gli ozi che può portare la fama Antony sfrutta solo la possibilità di avvicinare alla propria musica gli stimati colleghi.
E se la partecipazione di Lou Reed a “Fist Full of Love” appare più che altro come un doveroso scambio di favori, fa piacere notare la voce di Devendra Banhart far capolino dagli angoli di “Spiralling” e sorprende e diverte non poco la collaborazione di Boy George a “You Are My Sister”. Nel frattempo l’album se ne va, in poco tempo e probabilmente nel tempo giusto, lasciandoci ammaliati e contorti, rigirati totalmente dal nuovo incontro con un cantante che potrebbe diventare nel nostro mondo musicale, uno dei pochi a cui affibbiare l’appellativo di inimitabile. Non perché non ci sia nessuno al suo livello, ma semplicemente perché non si può imitare. Dopotutto voi riuscireste a immaginarvi epigoni di un androide ammantato di pura classicità?