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“Nevermind” usciva il 24 settembre 1991.
Gli scribacchini kalporziani si ri-approcciano oggi alle canzoni del capolavoro dei Nirvana, per vedere l’effetto che fa.
20 anni dopo.
Smells Like Teen Spirit
Li chiamano brani killer, inni generazionali o superhits. Sono quei pezzi che hanno importanza, per più di qualcuno. Ci sono tante canzoni infatti che piacciono a milioni di persone e che finiscono prime in classifica, ma che poi scompaiono con la stessa urgenza con la quale sono nate. Altre perdurano, significano. Effondono senso nelle coscienze, infiammano l’immaginazione, eccitano la mente e modellano di ombre estetiche la nostra esistenza. “Smells Like Teen Spirit” è un brano del ’91. Sono già vent’anni che il disco “Nervermind” e il suo singolo apripista fanno parte delle nostre vite. E sono ancora qui. Sono maturati e con gli anni abbiamo scoperto prospettive inedite sulla loro intima sostanza. Abbiamo capito che “Smells Like Teen Spirit” era un perfetto brano Pop e che dietro a tanto impetuoso decadentismo c’era anche callida consapevolezza poetica. Il neonato della copertina di “Nevermind” è oggi più che ventenne. Sono cambiate tante cose e non è cambiato nulla. Pensavamo che “Smells like Teen Spirit” potesse spazzare via una volta e per sempre tutta quella roba diabolica alla U2 o Guns ’n Roses. E invece sono ancora qui. La prima volta che ascoltai questa canzone di Cobain, su una cassettina rumorosa e falsissima mixer by Erry, ne fui incantato. E quell’incanto, nonostante tutto, è ancora qui. Pure la cassettina. Here we are now entertain us.
(Giuseppe Franza)
In Bloom
Il grunge non riesco più ad ascoltarlo. Grezzo, commerciale, ovvio. E allora perché, in un certo senso, un album come “Nevermind” non c’è stato più? Indubbiamente non è una questione di qualità: abbiamo avuto decine di dischi molto migliori. No, si tratta di qualcosa di estrinseco rispetto alla musica stessa. Qualcosa di, se si vuole, politico: “Nevermind” è stato un fatto politico e sociale, prima e più che musicale. Se vale l’assunto marcusiano (non nel senso di Herbert Marcuse, ma di Greil Marcus), secondo il quale il grande album, oggetto culturale autentico, è un composto di speranza e negazione, desiderio e sublimazione del dato di fatto – antagonismo che è causa del fascino di opere di questo genere – allora “Nevermind” è proprio l’emergenza di questo conflitto. Non quindi una descrizione, una raffigurazione, magari eccellente, di una condizione (come, ad esempio, “Kid A” dei Radiohead, o, più recentemente, “Third” dei Portishead), e neanche simbolo di un, concetto abusato, conflitto generazionale. No, è una presa di posizione, forse una delle più lucide in campo non solo musicale, contro “gli anni di Reagan” (in cui siamo ancora immersi, e questo è un problema). “We can have some more/Nature is a whore” dice Kurt in “In Bloom”: sguardo in avanti verso un futuro barrato. “Nevermind” è lotta di classe. È questa che ci manca.
(Francesco Marchesi)
Come As You Are
Il testo di “Come As You Are” stordisce per il suo fascino indefinito: in apparenza un dialogo o forse un soliloquio. L’interlocutore potrebbe essere un fantasma benevolo o anche nessuno. In uno dei versi più famosi della canzone si menziona un fucile (“No I don’t have a gun”) e questo ha fatto di “Come As You Are”, quasi suo malgrado, uno dei luoghi privilegiati del pellegrinaggio ermeneutico dei fans più morbosamente devoti al mito nirvaniano. In realtà quello che più stupisce è l’impiego reiterato del raro e latineggiante “memoria” (a metà tra utopia e amnesia) e la tensione dialettica di frasi antinomiche che non fanno che contraddirsi rapsodicamente (“as a friend, as an old enemy”; “as you are, as you were”; “Take your time, hurry up”). Il titolo della canzone, come molti sanno, riprende fedelmente il sottotitolo del cartello d’ingresso della città di Aberdeen e, in un certo senso, racchiude in sé il significato complessivo della musica di Cobain e soci, così come l’etica di ciò che ancora oggi si continua a chiamare “grunge”. Il riff bellissimo che disegna plasticamente il pezzo, secondo molti, è un furto maldestramente camuffato da “Eighties” dei Killing Joke, che minacciarono all’epoca un’azione legale, in seguito ritirata (provare per credere). La migliore cover? A nostro parere quella di Caetano Veloso, in punta di delicatissime corde, tese fino allo spasimo.
(Francesco Giordani)
Breed
Questa canzone, per certi versi, sarà spartiacque tra i Nirvana più grezzi e melvinsiani di “Bleach” e gli improbabili eroi del rock alternativo che diventeranno entro la fine del 1991.
Nata come “Imodium”, inizialmente si presentava come classico pezzo Sub Pop: chitarre cupe e robuste, urlato agonizzante e sezione ritmica elementare.Successivamente si trasformerà in un fantastico anello di congiunzione tra punk d’annata e sonica distorsione. All’epoca ero un ragazzino di nove anni che rimaneva turbato sia per la dissolutezza del cantante che per la loro incredibile voglia di vivere.
A distanza di vent’anni la frase “I don’t care if I’m old”, oltre a suonare profetica, è degna prosecuzione di quella “My generation” composta qualche decennio prima.
Quando avrete bisogno di adrenalina fate come me: posizionatevi sulla quarta traccia di questo splendido disco oppure avviate il “Live At Reading ’92”. Ritornerete ragazzini impregnati di spirito adolescenziale.
(Matteo Ghilardi)
Lithium
“Lithium” è l’ultimo singolo estrapolato da “Nevermind”, nonché una delle canzoni più conosciute del repertorio nirvaniano . Il litio è una sostanza utilizzata anche come stabilizzatore di umore, soprattutto dalle persone affette da disturbi bipolari. La canzone potrebbe effettivamente parlare di questo, in un’ottica autobiografica nemmeno troppo occulta, eppure l’impressione è che il burattinaio Cobain si diverta, con humour sopraffino, a far parlare uno degli stralunati personaggi che popolavano il suo affollato teatro mentale: individui beckettianamente amorfi, in sandali e vestaglia come sonnambuli, che parlano da soli, rompono tutti gli specchi, non escono di casa, si tagliano tutti i capelli, hanno molti amici inesistenti, accendono una candela, vedono dio. Per loro ogni giorno potrebbe essere (anzi: è) domenica mattina, vuoto e totalmente privo di prospettive future. Da questo punto di vista Cobain si conferma sottilissimo osservatore della provincia americana più profonda e marcescente, capace come pochi altri di raccontare la nausea e il disgusto di esistenze alienate che corrompono silenziosamente, come muffa, il Grande Sogno Americano, consegnandolo alla realtà della sua follia incurabile e definitiva. Una cover da ricordare? Senza dubbio la rilettura twee-flower-gospel del collettivo Polyphonic Spree.
(Francesco Giordani)
Polly
La prima scelta autonoma in campo musicale: tale è per me l’eredità di “Nevermind”! E uno “stato di salute” andato in frantumi: questa è l’ineffabile “Polly”, ballata grunge per definizione, inquietante nel minimalismo desolante, pacata eppure agitata dalla voce malata dell’indimenticabile Kurt. Canzone disperata dentro un album disperato che ascoltavamo rapiti e beati nei nostri anni musoni.
Tuttavia, dopo vent’anni e con i pezzi che vanno al loro posto, “Polly” non è più la canzone giovanile di un album furente, quale era sembrato “Nevermind”, ma il distillato poetico di un messaggio incuneato a metà lavoro, una rivelazione orrorifica improvvisa eppure preparata ad arte da brani frastornanti. Kurt era un poeta e dei poeti aveva il dono della profezia: quella disperazione malata del “si è quel che si è” non nasceva dalla consapevolezza di essere una generazione derubata dei sogni del passato, ma dalla certezza di essere una generazione senza futuro, dall’intuizione en passant che il nostro mondo iniziava a finire.
(Stefania Italiano)
Territorial Pissings
“Territorial Pissings” rappresenta bene “Nevermind” per la sua banalità efficace e dall’impatto così inspiegabilmente travolgente. Una banalità che riesce sempre e comunque a colpire, stregare e annichilire. Se con “Breed” emergono i primi vaghi sentori della necessità di espettorare una rabbia fino a quel momento troppo controllata, in “Territorial Pissings” i tre non ce la fanno più. Due minuti e ventidue secondi di nostalgia punk forzata, fuoriluogo, inutile, levigata dai furori dissonanti e bassa fedeltà di “Bleach”. Ma questo è “Nevermind” che tutto può, così l’urlo “Gotta Find A Way” diventa l’ennesimo slogan nichilista di un Cobain che marca il territorio pisciando con arroganza e strafottenza sul muro di buoni e cattivi maestri. A partire dalla starnazzante caricatura d’apertura di “Get Right”, uno dei brani simbolo di intere comuni di hippie e freakettoni vari. L’avevano già fatto i punk, l’aveva già fatto qualcun altro, ma “Nevermind” è gli anni ’90 proprio per questo.
(Piero Merola)
Drain You
Una cosa mi ha sempre colpito, di “Drain You”: la parte centrale. L’ho sempre trovata una metropolitana straniante in cui addentrarsi (“I travel through a tube”), un intero mondo composito. Mi hanno sempre fatto sorridere i suonetti di giocattoli all’inizio di tale stacco (siamo dalle parti del minutaggio 1:42), che Cobain trovò lì in sala di registrazione e penso di utilizzare, ma soprattutto gli spray registrati alla fine dell’inciso, prima del lancio, che aprono il suono in una maniera splendida. Mi sono sempre immaginato Kurt Cobain che, sorridendo e divertendosi, schiacciava paperelle e spruzzava lacca per capelli (di Courtney Love?) davanti ai microfoni, e queste istantanee ricreate nella mia testa (“they’re in my head”, ma questa è un’altra canzone di “Nevermind”…) sono sempre lì che riemergono ogni volta che arriva quella parte mediana. Immagini solari per una canzone che parla di baci appassionati, scambio di fluidi e cannibalismo amoroso. “I Like You”, Kurt.
(Paolo Bardelli)
Lounge Act
Non è facile scrivere di un pezzo dei Nirvana in un soleggiato pomeriggio settembrino come questo: calma apparente nell’aria, nessuna traccia di disagio giovanile né di spirito adolescenziale, solo noia per il caldo e fastidio per l’anno lavorativo appena iniziato. Eppure basta poco, basta indossare le cuffie, basta far partire “Lounge Act” e chiudere gli occhi. Ascoltare la voce di Kurt che racconta di legami soffocanti finiti male, di rapporti sessuali incompiuti per via di odori disturbanti, mentre Krist estrae dal cilindro un giro di basso da leggenda. E poi improvvisamente sono di nuovo io a 14 anni, quasi un decennio in ritardo dall’ondata grunge, ma pazienza. Aspetto il minuto 1 e 32, aspetto che Kurt urli come un pazzo “Truth – covered in security!”, e quando parte lui canto anche io dietro la sua voce, tentando inutilmente di imitarne le urla. Mi dimeno, mi agito, ho solo un minuto a mia disposizione e chissenefotte se mi sta per venire un infarto e se i miei nell’altra stanza pensano che mi sia rincoglionito, io canto insieme a Kurt “e volevo di più di quello che potevo rubare, fermerò me stesso, vestirò uno scudo”. Poi è finita. Breve ma intensissima, fino al prossimo repeat.
Lounge Act, è il grunge, è il punk, è il rock, è l’anima dei Nirvana, è l’urlo di Kurt e di mille ragazzi come lui. Intanto sono sudato e paonazzo, non ce l’ho fatta, l’ho cantata ancora una volta. Nevermind.
(Stefano Solaro)
Stay Away
L’incontinenza, l’eruzione, tre minuti e mezzo di intime riflessioni e grida.
“Stay Away”: un pezzo grunge in un album che ha venduto (nel senso letterale ed assolutamente non dispregiativo del termine) il grunge alle culture di massa . Molto è stato vagliato e studiato in “Nevermind”: il missaggio finale rivisto da Andy Wallace, dopo una dura opera di convinvimento nei confronti di Kurt Cobain, per rendere più commestibile, appetibile per le radio e per il mondo, la grana di quel suono.
Parole, a volte forti, a volte provocatorie; alcune volte efficaci, altre volte sconclusionate. Parole vive, forse, solo nel loro esistere in simbiosi con l’energia palpabile di quella musica e con la figura dell’eroe/antieroe Cobain e, contemporaneamente, quasi insignificanti, se separate da tutto il resto.
“Stai/state lontano!”
(Tommmaso Artioli)
On A Plain
Quando torno nella mia casa antica mi sento un po’ come un tombarolo che s’infratti in un tumulo etrusco e violi il silenzio dopo duemila di anni di ruggine. Quando una cosa è passata davvero, non è importante che siano trascorsi 20 anni o 20 secoli. La solita, bislacca patina di polvere copre i mobili e i libri e il piatto dello stereo, come solo lei sa fare. Pare che alcune assi di legno si siano imbarcate anzitempo; è la solitudine delle cose, si vede.
Scopro, nell’oscurità, il pilastro in cemento imbiancato in mezzo alla taverna, quella in cui incappai molte sere, tornando a casa storto. Se cerco bene dovrei trovare, e trovo, un verso scritto con una Bic nera: “I love myself better than you, I know it’s wrong, but what should I do?”, una falce di luce la illumina, scappando dalla finestra bassa che dà sul giardino. Ora non ricordo nemmeno bene per chi l’avessi scritto, forse all’epoca l’impatto del grunge fu così forte che mi pareva giusto avere in dote un amore un po’ malato (anche se non è amore se non si ama bene). Prima di uscire, la sera, affondavo nel divano, e facevo tremare i quadri con “Nevermind”, al buio. Ricordo che arrivò la moda di indossare camicie a scacchi e jeans corti, un sollievo che spazzò via d’un colpo i detriti degli anni ’80, quelli da cui nessuno usciva mai vivo.
Tra cent’anni la frase di Kurt sarà ancora su quella colonna, come certi graffiti con leoni e giraffe, nelle Grotte di Lascaux.
(Matteo Marconi)
Something In The Way
Non sono un grande amante della cucina e del mangiare in generale. Per questo non amo troppo neppure i salutisti che trovo fanatici. Nulla contro i fanatici, le ossessioni sono un’ottima soluzione per spostare l’attenzione e concentrarla su qualcosa di meno assurdo e inconcepibile della vita in genere, ma i fanatici del cibo proprio non li digerisco.
Trovo assurdi i vegetariani. Perché trattano una questione prettamente fisica come una cosa spirituale o intellettuale. E fanno ragionamenti pure un po’ del cazzo. Tipo “non mangio le mucche perché sono esseri viventi, non voglio che muoiano per colpa mia” ma del broccolo se ne fottono, anche se il broccoletto è stato un seme che ha preso vita, è cresciuto con fatica e sentimento, si è avviato alla maturazione combattendo siccità, parassiti, aggressioni fisiche di piedi di bambini o di adulti che potevano calpestarlo. Anche un broccolo ha le sue sacrosante cellule viventi. Certo non si procura acqua e non si protegge dai parassiti da solo, ma non vedo in ciò una discriminante esistenziale. Un sacco di gente campa a scrocco. La povera piantina nasce, cresce e muore e sono sicuro che la morte non deve essere per lei una bella cosa, soprattutto se per ustione in un pentolone da minestra. Comunque peggio dei vegetariani sono i vegani, che non mangiano manco i derivati della carne. Tipo uova e cose grasse. Mah. In adolescenza era molto di moda essere vegetariani o comunque simpatizzare per i vegetariani. E pure Kurt Cobain lo era. Causa o effetto della mania non si può ben sapere. Ma Cobain era un tipo pieno di contraddizioni, voleva fare il guru, ma se ne stancava immediatamente e si vestiva di cinismo, poi crollava e mostrava le sue fragilità, poi si sentiva un fesso e rifaceva il cinico, ab libitum, o almeno fino al botto. Mi piace pensare che vivesse queste manifestazioni ironicamente. Così come ironica doveva essere la sua fede vegetariana, a me sembra. In “Something in The Way”, ballata fragile e oscura, contrappunto importante in un album grunge di pezzi aggressivi e laceranti, Cobain canta “But it’s Ok to eat fish ’cos they havent any feelings”: si può mangiare il pesce, perché loro non hanno sentimenti. E dopo questa frasona piena di assurdità e non senso (che non è una cosa senza senso, ma una cosa con un senso diverso o inafferrabile) parte quel ritornello addolorato e avvolto in tre note strazianti di violoncello che chi ascolta non dimentica più. Dice che c’è qualcosa giù per strada, contorcendo significato e significante in una specie di ululato malinconico. Ma cosa c’è per strada? Pesci che pisciano, animaletti da catturare, erba da fumare o calpestare, angoscia, pateticità e melodrammaticità da tossicodipendenza, dettagli ingiustificabili e bellissimi. Da ciò cosa ne consegue? Che è ok mangiare il pesce, perché sti pesci non hanno nessun sentimento. La prendono con filosofia.
(Giuseppe Franza)
14 settembre 2011