Share This Article
Un’altra folgorazione improbabile per Christopher Owens, l’ex-figlio di dio abbandonato dai genitori (e poi mantenuto da un milionario) più famoso dell’underground americano. L’archetipo dell’hipsterismo californiano che insieme a Chet White, solo due anni fa, aveva dato luce a uno degli album più freschi e sorprendenti della stagione, cambia registro. Non si capisce cosa sia passato per la già confusa testa del biondo dai capelli più sudici della scena indie di San Francisco. O quali mix fatali abbiano spinto i Girls a virare verso un rock dagli influssi pesantemente Seventies perdendo quel tiro ingenuo e tagliente di “Album”. Le venature e cantautorali e psichedeliche dell’epoca che parevano già emergere nel valido EP del 2010, “Broken Dreams Club”, a tratti prendono il sopravvento in “Father, Son, Holy Ghost”. Il suono è meno schietto, più solenne e controllato. E del resto il duo diventa di fatto un quintetto con l’arrivo di Dan Eisenberg alle tastiere, John Anderson tra cori e chitarre e Darren Weiss alle percussioni.
La sussurrante “Vomit”, scelta come brano di lancio, è una nenia senza speranze che alterna sfoghi epici floydiani e marcissimi assoli à la Neil Young. Quello che non vedeva la luce alla fine del tunnel nel memorabile “On The Beach”. “Forgiveness” così diventa la loro “Ambulance Blues”, pur negli evidenti limiti di scrittura e temi di un Owens così rassegnato e maledettamente slowcore da sembrare una risposta adolescenziale ad Alan Sparhawk dei Low.
Tutta un’altra band insomma, se si pensa alle starnazzanti “Lust For Life” o “Laura”, ai rigurgiti surf di una “Big Bad Mean Mother Fucker”.
E pensare che l’apertura di “Honey Bunny” ha un che di entusiasmante riproponendo con estrema maturità la formula d’esordio tra surfismo beat e inchini a sir Elvis Costello. Così come per la sommessa filastrocca “Alex” e quelle svisate così rock band. Chissà per quale spacciatore della West Coast, i Girls abbiano scelto di trasfigurarsi in una controversa controfigura hipster dei Wilco. Nulla di male perché “My Ma” è da brivido. E nonostante tutto “Love Like a River” un po’ caricatura lennoniana, un po’ McCartney (come non pensare a “Oh Darlin’”?) e un po’ stereotipo da ballad blues a partire dal titolo, funziona. Ma “Jamie Marie”, per quanto curata nei dettagli come tutto l’album, è uno di quei brani che si skippano e si passano ai genitori.
Poi con “Die” il disordine psicologico di Owens e soci diventa un delirio d’onnipotenza. E in un intermezzo che fortunatamente non va oltre i quattro minuti, i ragazzi si lasciano un po’ troppo prendere la mano. Le schitarrate hard rock, evidenti richiami ad “Highway Star” dei Deep Purple e azzardate progressioni desert sono fatte per i Black Mountains, non certamente per loro. Il senso sfugge come nella diabetica e irritante “Saying I Love You”.
La qualità delle canzoni non manca, l’empatia con l’ascoltatore, che costituiva la marcia in più per le viscerali canzoncine d’esordio fatte di stridori e intimismi senza pretese, è rotta troppo spesso da manierismi un po’ pretenziosi per due slacker di San Francisco.
Che Owens, il quale ha ricollegato a una sua rinnovata spiritualità la scelta del titolo, stia pensando di mettere su una chiesa personale? Non ci sarebbe da stupirsi, ma, in ogni caso, si salvi chi può.
64/100
(Piero Merola)
11 Settembre 2011
1 Comment
laura
65/100