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Arrivati ad un certo punto della propria carriera, è anche giusto cambiare strada. Sono circa quindici anni che la coppia più bella della musica Americana (inteso come genere, non come aggettivo), Burns & Convertino, regalano suggestioni strumentali figlie parimenti di Howe Gelb – loro primo datore di lavoro nei Giant Sand – e di Ennio Morricone, sia nei dischi a nome Calexico, che nel miliardo abbondante di dischi cui hanno partecipato in qualità di sessionmen di lusso. “Garden Ruins”, infatti, rappresenta una decisa sterzata verso la forma canzone, la stessa parzialmente abbozzata in quel “Feast Of Wire” che tanti cuori infiammò. Ma lì l’equilibro dell’arrangiamento “alla Calexico” aveva raggiunto un punto d’arrivo che la band più non poteva superare se non con un rinnovamento, sia per evitare dormite sugli allori, sia per non diventare vittime di un suono ormai diventato stereotipo e archetipo di un certo modus operandi.
L’unico problema di “Garden Ruins” è l’assenza di canzoni veramente indimenticabili. E’ un lavoro troppo omogeneo, che manca del cosiddetto guizzo che gli darebbe la spinta sufficiente a guadagnarsi il classico “posto d’onore”. Non che sia brutto, ma rappresenta uno standard qualitativo cui i Calexico ci hanno ormai abituato da anni. Niente da buttare ma niente per cui stracciarsi le vesti. E’ un bicchiere mezzo pieno perché figlio di un mestiere splendido che si ascolta sempre con una certa soddisfazione. Chi non li ha mai sentiti certamente non deve partire da questo disco (magari da “Feast Of Wire”), che è quanto da più lontano dell’innamoramento che Burns & Convertino possono provocare. In bocca al lupo – anzi, al coyote – per il futuro, gringos.