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A chi gli chiedeva se i suoi album da solista, così spigolosi e tesi, fossero uno sfogo e una fuga dai suoni troppo morbidi dei PGR, Giorgio Canali rispondeva lapidario che il rock è sempre uno sfogo, punto. Davanti a un disco come questo, far passare la sua musica come un semplice passatempo dove alzare la voce sembra quasi offensivo, perché il livello cresce album dopo album.
In questo “giorgiocanali&rossofuoco” il miglioramento più netto è come autore di testi: rabbiosi, cinici, fotografie di un’umanità deragliata, dove ogni immagine è deformata dalla scatola idiota che ci bombarda ogni giorno. E così, nelle canzoni di Giorgio Canali, ci sono “figli dei fiori di plastica”, le stelle del nord assomigliano a satelliti militari, sole e luna tentano di inghiottirsi a vicenda, le ragazze hanno incubi (e non sogni) nel cassetto, bande di bionde vengono trucidate all’ora dell’aperitivo, cuore fa rima con tremore, mentre la televisione ci obbliga a “credere, obbedire, crepare”: immagini viste da un Savonarola armato di chitarre e feedback, moralista e castigatore dei costumi, insomma.
Le sue parole hanno qualcosa che i suoi compagni d’avventura non hanno mai saputo avere: la semplicità, che sfocia nel banale in pochissimi passaggi, solo quando la musica non è all’altezza di sostenerla.
L’album parte in modo debole, va detto: le prime due canzoni portano avanti un rock troppo ammiccante, e fanno venire in mente brutti paragoni, ma dopo pochi minuti si parte davvero, e “Fumo di Londra” travolge con volute acide e potentissime di chitarra, mentre “No pasaran” si fa beffe di tutto e tutti, retto da una sezione ritmica solida. Di nuovo “Mostri sotto il letto” richiama brutti paragoni, ma l’onda sonora degli strumenti è talmente devastante da spazzarli via, e da qui in poi è un crescendo continuo: le chitarre stritolano il passo lento e antimilitarista di “Fuoco amico”, l’apocalisse sonica di “Savonarola (la fine del mondo a Ferrara)” ricorda i Marlene Kuntz più bui, mentre “Rime con niente” è pura dinamite, come i Noir Désir ai fragorosi tempi di “Tostaky”, con un intervento di organo da manuale nel travolgente finale. “Questa è una canzone d’amore” non mantiene le promesse, parlando di tutt’altro dopo lo scoppio di quella chitarra disturbata che abbiamo amato alla follia.
Dopo tanto sorriso amaro, dopo tanta rabbia, arriva la dolcezza incredibile di “Questa no”: il suono, dopo averti investito a lungo, si avvicina e ti abbraccia, assieme all’immagine dei due corpi che si stringono per proteggersi dai rumori della notte. I nervi si distendono, finalmente, e ci lasciano con la sensazione che Giorgio Canali sia tutt’altro che un comprimario in cerca di uno sfogo momentaneo. Ma questo, in fondo, lo sapevamo già.