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Ascolti questo disco la prima volta, senti che c’è qualcosa di speciale ma sembra troppo intenso. Lo metti da parte per un po’. Poi lo riascolti una volta, e un’altra, e un’altra ancora e non riesci più a farne a meno. Sì perché nonostante una carriera e una produzione decisamente prolifiche, il Nostro non perde occasione per incantare ancora l’ingenuo ascoltatore con la sua poesia e la sua disarmante onestà.
Eccessiva prolissità? Noia? Manierismo? Tutte stronzate, “Ghetto Bells” è una grande raccolta di canzoni, commoventi, intensissime, dolorosissime (“Virginia” o “What Do You Mean?”). Assieme ad ospiti di assoluto rilievo – tra cui spiccano Bill Frisell alla chitarra, Van Dyke Parks al pianoforte e Don Heffington alla batteria – mister Chesnutt si mette ancora una volta a nudo per mostrarsi in tutto sé stesso, come è sempre stato solito fare, conscio di uno stile unico e riconoscibile dove il folk si mescola al rock d’autore con una perizia didascalica che ha dell’affascinante per perfezione. E con “Ghetto Bells” ritorna ai migliori livelli, quelli dove la musica e le parole si staccano dal proprio freddo pentagramma per attaccarsi alla carne con convinzione e – perché no? – presunzione.
Una musica che nonostante preferisca i toni sussurrati alla furia, ti aggredisce e ti ferisce con un’intensità che è veramente raro ascoltare. Impossibile stare impassibili davanti a canzoni come “Little Ceaser”, “Got To Me” e “Forthright”, così come significherebbe essere totalmente desensibilizzati davanti al fascino della “bellezza” accogliere con snobismo canzoni del calibro di “Vesuvius”, della waitsiana “Gnats” e di “Ignorant People”. E nonostante sia appurato che soffrire non è mai niente di positivo, con “Ghetto Bells” siamo davanti alla dimostrazione di come anche questo possa diventare qualcosa di – a modo suo – bellissimo, quando cullarsi nella malinconia non è più una semplice posa ma qualcosa di veramente significativo.