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Nella stanza a fianco, ci sono alcune persone. Sedute sul divano, intorno a un tavolo, in piedi accanto alla finestra. Parlano tra loro, ma non sono tipi di molte parole. Sono musicisti, tutti col dono di un blues scarnificato ed elettrico: si chiamano Cesare Basile, John Parish, Hugo Race, Giorgia Poli.
Tu hai chiesto scusa, ti sei allontanata un attimo, andando in camera tua. Il pianoforte è stato un richiamo dolce e intenso, come sempre: per la prima volta, hai deciso di fare tutto da sola. Hai le tue canzoni, le tue parole, i tuoi pensieri da cantare. E lo fai con una voce densa, che sa di polvere e che, questa volta, non vuole esagerare (diranno di te che assomigli a una Hope Sandoval che ha finalmente smesso di fare la lolita, e sai che è un gran bel complimento): solo tu, il tuo pianoforte.
Sono canzoni da cantare sottovoce, le tue, e il piano non può sovrastarla: sono pagine di diario da raccontare alle proprie dita. Sei silenziosa, timida, quasi che tu non voglia disturbare nessuno.
Dall’altra stanza, ogni tanto qualcuno si alza e viene a portarti in dono una chitarra o una traccia ritmica sottile; ma questo è il tuo disco, non quello dei tuoi meravigliosi e ingombranti amici.
“Pretty and unsafe”, il primo disco solista di Marta Collica, sembra essere nato proprio così; e, come tutti i dischi intimi, finisce per fare moltissimo rumore in chi sa stare in silenzio ad ascoltare: solo i fruscii e i loop sovrapposti di “Mavy sad” e “That’s Peter window” sembrano portati in eredità dai sogni dei Sepiatone, ma tutto il resto ha il sapore di qualcosa scritto di getto e poi meditato a lungo, spogliato di ogni vestito.
E in “Umpteeth blue”, la più intima e bella di queste pagine, qualcuno apre la porta; sorridi, chiudi il pianoforte, torni dai tuoi amici. Chissà se te ne rendi conto, della bellezza che hai creato in quei momenti di assenza…