Share This Article
Uno dei quartetti più solidi e affiatati della storia del jazz, l’inarrivabile talento di un sassofonista del calibro di Johan Coltrane e, su tutto, lo spirito della musica bebop, frontiera del jazz dal dopoguerra agli anni ’60. Ecco gli ingredienti che fanno di questo concerto un vero evento.
Dopo avere suonato nelle fila di gruppi di altissimo livello, e in particolare con la band di Miles Davis per oltre quattro anni (dal 1955 al ’57 e dal 1958 al ’60), Coltrane accetta la sfida di creare un proprio gruppo, e di cominciare a suonare da leader. E lo fa con grande maestria, affidandosi a musicisti di grande valore: McCoy Tyner, che aveva suonato con Coltrane a Philadelphia, da adolescente, e nel giro di un anno ne era divenuto il pianista “ufficiale”; il bassista Jimmy Garrison, e il batterista Elvin Jones, erede di una famiglia di musicisti e già elemento di spicco del trio di Bud Powell.
“Mr. P.C.”, che apre il concerto, con i suoi oltre 26 minuti lascia ampio spazio all’improvvisazione solistica di tutti i componenti del gruppo. Introdotto il tema da tutti gli strumenti, è McCoy Tyner a prendere in mano la conduzione, scomponendo e ricomponendo la linea melodica in quante più sfaccettature possibile. E’ poi la volta di Elvin Jones, che sembra letteralmente “giocare” con lo strumento, prima con l’archetto e poi col pizzicato, in un dialogo sempre più serrato ed intimista tra se stesso e la propria musica. Infine Jimmy Garrison, che mai in una sola occasione si lascia prendere la mano dall’energia che circola in questo concerto: misurato e mai invadente, ma insostituibile. Infine John Coltrane, che dà fiato a tutte le potenzialità ritmiche e timbriche del suo strumento.
“The Inch Worm” si annuncia da subito più consono ai ritmi concitati del jazz di Coltrane: frasi brevi e spezzate, una ritmica sommessa ma incalzante, e uno spirito travolgente che spinge tutti i musicisti al loro apice. Il sax tenore di Coltrane si ritaglia un ampio spazio espressivo, incaricandosi ora di sostenere ora di stravolgere il ritmo imposto dalla batteria, dal basso e dal pianoforte.
Infine, conclude questa registrazione la rivisitazione di uno standard di Cole Porter, “Ev’ry Time We Say Goodbye”. Pur mantenendo il suo tratto aspro, il sax di Coltrane si ammorbidisce in omaggio alla melodia suadente di questo brano: ne risulta un’interpretazione che lascia alla composizione di Porter il suo spirito elegante e sofisticato, senza rinunciare ad una rilettura personale e inconfondibile.