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Da ragazzino avevo una t-shirt di Alice Cooper. Era completamente nera ed al centro aveva un immenso teschio ben disegnato, tremendamente realistico e forse un po’ troppo truce. Ricordo che ne andavo fiero, era l’invidia dei miei compagni di banco ai tempi delle superiori e devo confessare che ogni volta che la indossavo gonfiavo il petto con orgoglio: mi faceva sentire un vero duro.
Ricordo che la usai anche per fare il rinnovo della carta d’identità e non fu proprio una grande idea: non riuscivo a capire perchè ogni volta che un vigile mi fermava per un controllo al motorino, una volta in possesso del mio documento si dovesse poi dimostrare così “insolitamente” zelante.
Il tutto, ovviamente, senza aver mai ascoltato una sola canzone di Alice Cooper e sapendo a malapena chi fosse: a quei tempi ascoltavo di tutto tranne che la “musica del diavolo”.
Andando avanti con l’età per fortuna mi sono ravveduto e così mi sono ritrovato ad ascoltare le mie prime canzoni di Alice Cooper in età quasi matura, a partire da quella “Lost in America” che ancora oggi mi ritrovo a canticchiare a tempo perso e che tanto mi fa divertire, soprattutto per il cinismo con cui prende a sassate il mito del sogno americano (“non posso avere la ragazza perché non ho la macchina, non posso avere la macchina perché non ho un lavoro, non posso avere un lavoro perché non ho la macchina… così sto aspettando una ragazza che abbia un lavoro e una macchina”).
Questa in realtà doveva essere una premessa per farvi capire quale fosse il mio debito di riconoscenza verso questo “dinosauro” del rock, tuttavia non riesco a giudicare questo lavoro con eccessiva magnanimità, non tanto perché il disco risulti suonato male (i musicisti che accompagnano lo zio Alice sono da sempre dei veri mostri) ma perché questa venticinquesima tappa artistica non riesce proprio ad aggiungere niente di nuovo alla sua venerata e veneranda carriera.
Alice Cooper paga forse un’eccessiva mancanza di stimoli: dopo aver venduto quintali di dischi in tutto il mondo ed aver raggiunto una fama di tutto rispetto, è riuscito finalmente a comprarsi flotte di macchine e a conquistare ragazze a caterve (ma sarà vero?), raggiungendo il suo personale e tanto agognato sogno americano.
Il risultato è un lavoro pieno zeppo di canzoni scontate, in cui al massimo si riesce ad ascoltare qualcosa che si possa accostare al periodo migliore di Alice Cooper, e poco importa se l’idea di un concept album si riveli un minimo creativa, ciò che importa è la realizzazione, ed in questo caso è assai banale.
E’ sempre triste quando la massima ambizione di uno stimato artista si rivela quella di riuscire a copiare quanto di meglio ha saputo fare nel suo periodo di massimo splendore. Molto spesso questo è un chiaro sintomo di una carriera che si avvia sul viale del tramonto. Alice Cooper ha saputo dare tanto alla scena rock ed a suo modo è stato un creativo precursore del marketing-rock, curando alla perfezione la sua immagine in modo uguale se non superiore alla sua musica, soprattutto nei suoi fantasmagorici live show.
Adesso gli sono rimasti solamente gli effetti speciali e pure questi hanno le polveri bagnate: riusciranno a salvarlo anche questa volta?