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Superato, non con poche difficoltà, il momento difficile, Robert Smith torna ad occuparsi a tempo pieno dei Cure, spinto dalle possibilità creative che il nuovo sound ottimato può garantirgli. Con Tolhurst ormai fisso alle tastiere affida la batteria a Andy Anderson e il basso a Phil Thornalley. Le ipotesi fatte sul pop espresso in “Japanese Whispers” diventano certezza all’ascolto dell’album.
L’attacco di “Shake dog shake” è duro, con chitarre modellate sull’hard rock anni ’70, così come psichedeliche sono le chitarre di “Birdman Girl”. Angosciante è l’inizio di “Wailing wall”, con interessanti echi orientaleggianti e un cantato che sembra ricercare i tempi di “Seventeen Seconds”. Ma è solo un caso, con “Give me it” si torna alla migliore forma pop, forse leggermente più urlata e urticante. Anche una ballata dolce come “Dressing up” sembra risentire in parte di un’ispirazione ferma a metà, ancora indecisa sulla strada da intraprendere, incapace di abbandonare un passato – solo tre anni! – così glorioso. L’unico brano a presentarsi in uno splendore inattaccabile è “The Caterpillar”, usato anche come singolo dalla band. Perfetto nella sua cadenza pop, cantato con tartagliante seduzione da Smith, originale nell’uso delle percussioni, è sicuramente il brano migliore dell’album, quello che più facilmente può far intravedere il roseo futuro che aspetta la band. Di buona fattura anche “Piggy in the mirror” che ha forse l’unico difetto di essere abbastanza prevedibile. Un accompagnamento da marcia militare è la base di partenza di “The empty world”, mentre di nuovo la psichedelia fa capolino dietro le tastiere impazzite di “Bananafishbones”. “The Top” chiude l’album, non certamente al meglio.
Un ulteriore album di transizione, poco ispirato, forse troppo rapidamente dato alle stampe, che denota una certa stanchezza compositiva – dopotutto è il settimo album in sei anni di vita – che porta inevitabilmente ad una noiosa ripetitività in alcuni brani. Ancora non appare riuscita la fusione del dark con il pop, con quest’ultimo troppo spesso preponderante. In conclusione un album imperfetto, forse il punto più basso della vita artistica dei Cure. Un semplice incidente di percorso.