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L’Lp che doveva essere un Ep, questa è la storia dell’ultimo album di Ginevra Di Marco. “Disincanto” poteva benissimo fermarsi al pezzo cinque, “Hannorè”, e tutto sarebbe stato lo stesso. Anzi avrebbe rappresentato il buon ritorno di una magnifica voce di cui non si poteva che sentire la mancanza. Invece Ginevra ha voluto confrontarsi sulla lunga distanza ed è mancata come un maratoneta che abbandona al ventesimo chilometro. A dirla tutta uscire con un cd completo forse era anche necessario, mancando un suo album solista originale da sei lunghi anni: se non consideriamo il live interlocutorio “Concerto n. 1 Smodato Temperante” (2002), l’album di debutto e, finora, unico documento dell’ex P.G.R. era “Trama Tenue” (1999).
Le buone premesse c’erano tutte: la maternità e il voler tornare sulle scene a tutti i costi. Evidentemente per esigenza profonda. E come una danza propiziatoria di questo ritorno l’iniziale “Tribale”, interamente scritta dalla Di Marco, possiede un giusto climax percussivo e, per certi versi, trascinante. E’ insomma una degna canzone di apertura (non a caso è stato il brano con cui è iniziato il concerto al Calamita del dicembre scorso). La successiva “La Buona Fortuna” riprende sonorità vicine a “Trama Tenue”, mentre la terza “Andirivieni” tocca corde più malinconiche che ben si confanno ad una voce che sembra arrivare direttamente dall’anima. Si continua ad ascoltare e “Fedeli Differenti” offre l’episodio davvero più riuscito, figlio illegittimo di tutto il lavoro fatto con Ferretti e soci, una chitarra che si contorce e un basso grezzo e metallico che diremmo suonato da Maroccolo (nelle note di copertina al basso c’è un certo “Eu”, che sia uno pseudonimo?). Già con “Hannoré” si sente un calo, l’intensità struggente è quella solita della Di Marco ma i territori sono vicini a quelli di Carmensita Consoli. Poi al sesto brano potete schiacciare “Stop”. Il buio.
Si è voluto mantenere l’analisi nel rigoroso ordine della track-list, perché è davvero difficile raccontare il poi del cd. Lo si è ascoltato e riascoltato più volte: semplicemente le canzoni sembrano parecchio poco ispirate. E la splendida voce di Ginevra non basta a risollevarle.
Ginevra si è dimostrata in “Disincanto” una grande interprete, ma ciò è molto pericoloso perché la avvicina più al mondo delle esecutrici che a quello delle cantautrici. “Ma le canzoni le ha sempre scritte Magnelli”, potrà obiettare qualcuno. Certo, ma l’approccio e i risultati erano stati fino ad oggi quelli di una promessa della musica d’autore italiana. Speriamo che in futuro Ginevra sia di parola. Se fossimo dei prof di qualche anno fa dovremmo, a malincuore, rimandarla a settembre.