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Il quarto volume della serie di bootleg dedicati all’artista Dylan è la splendida occasione per gustarsi, integrale, un suo live nel 1966. Ma che il titolo non vi tragga in inganno: in realtà il concerto in questione, passato alla storia dei bootleg come “il concerto al Royal Albert Hall” fu registrato a Manchester, il 17 maggio del 1966.
Superata la sorpresa per questa particolare “svista” basterà metter su i due cd che compongono il concerto e lasciarsi ammaliare dallo splendore dell’insieme. Tanto per ricapitolare: il 1966 è una data che segna un punto di svolta nella carriera di Dylan. Da un lato c’è il passato, gli esordi distanti appena cinque anni, che lo hanno elevato a ruolo di portavoce della generazione folk, dall’altro c’è l’uscita di due album come “Bringing it all back home” e “Highway 61 Revisited” che appena pochi mesi prima hanno fatto scalpore, con quelle chitarre elettriche trasudanti blues torrido. E c’è anche chi ha gridato allo scandalo dando del “traditore” a Dylan, colpevole di aver tradito la causa acustica per cedere alla facilità del rock. Benedetta innocenza: “Blonde on Blonde” ha dimostrato che il rock è tutto tranne che facile e che il menestrello non ha abbandonato la via dell’acustica, l’ha semplicemente impreziosita con altre perle.
Ma torniamo al live: due cd che sezionano in maniera certosina i due aspetti della serata di Manchester. Il primo racchiude l’intimità dell’acustica, la purezza degli accordi di chitarra, il nitore degli arpeggi al pianoforte, i tremolii della voce di Dylan, che spazia da una canzone d’amore come “She Belongs to Me” (“She’s an Hypnotist Collector, You Are a Walking Antique”), ai frammenti di vita di “Visions of Johanna”, dall’introspezione sulla solitudine umana di “Desolation Row” al senso dell’assoluto che si sposa con “Mr. Tambourine Man”. Un Dylan che ha voglia di mostrarsi, di non nascondere il proprio volto, e si dona in maniera scarna, quasi francescana, al suo pubblico, che ascolta in religioso silenzio.
Il secondo cd (e la seconda parte del concerto) mostrano invece il volto scatenato del ragazzotto venuto da Duluth, quello più vicino al rock, quello che finalmente mostra la sua età (stiamo parlando di un venticinquenne!!!): “Leopard-Skin Pill-Box Hat” è a dir poco irresistibile, la conclusiva “Like a Rolling Stone” abrasiva, caustica e frenetica. L’orgia rock di Dylan assomiglia ad un canto tribale: dopo la pausa mistica, il rifugio in se stessi, ecco prorompere l’irruenza dell’animalità, il ballo scomposto, l’ebbrezza del rapporto con la divinità. Non tutto il pubblico, nel 1966, è pronto per comprendere questo. Partono alcuni fischi, un’ala del pubblico rumoreggia: Dylan non si scompone, si ferma a parlare con i contestatori e si rimette a suonare. Convincendo finalmente tutti. Ed entrando nella storia (anche dei live).