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Chissà cosa avranno pensato i frequentatori del Greenwich Village quando, nei primi anni ’60, riconobbero in quel Bob Dylan che faceva impazzire il mondo il ragazzo paffutello con accento sporco del Minnesota che allietava le serate nei locali folk vicino al Central Park.
Robert Zimmerman (questo il suo vero nome) se n’era andato da Hibbing, nel Minnesota, appena diciottenne nel 1959, inseguendo due miti: l’On the Road di kerouachiana memoria e la musica di Woody Guthrie. Incontrato il vecchio e ormai debilitato folk-singer in una casa del New Jersey decise di continuare a far vivere quella musica che aveva nel cuore.
Trasferitosi nella Grande Mela non faticò a trovare un impiego come cantante folk nei locali del Greenwich Village, diventando parte del cartellone fisso in locali di grido come il Gerde’s Folk City. Pur non suscitando troppa simpatia nell’ambiente per il carattere chiuso (ma molti gli rimproveravano anche il tenace impegno politico) riuscì laddove quasi tutti fallivano: ottenere un contratto con una major. Ma non una major del settore folk, a prendere in consegna l’arte di Bob – che aveva cambiato il suo nome in Dylan in omaggio a Matt Dylan, eroe di molti western televisivi – ci pensò nientemeno che la Columbia, che pensò bene di farlo esordire su LP nel 1962.
L’esordio, intitolato semplicemente col nome del giovane artista, è una raccolta di canzoni folk. Tutto qua. Quasi tutti i brani sono cover di pezzi folk, e qui Dylan spazia, prendendo a larghe mani dal repertorio di Jesse Fuller, Bukka White, C.Jones e Lemon Jefferson, oltre alla tradizionale “House of the Risin’ Sun” già cantata da Guthrie.
La voce sporca e sibilante e la grinta sfoggiata fanno di questo esordio interlocutorio una importante vetrina sulla sua opera successiva. Di suo Bob presenta solo due brani. Il primo, “Talkin’ New York”, è il resoconto della sua vita da bohèmien nella città durante il 1960, anno in cui il cantautore patisce la fame e il freddo, ancora poco apprezzato per la sua arte e costretto ad arrangiarsi (“Magari prova a ripassare, sembri uno che suona Hillbilly; noi qui vogliamo cantanti folk” ricorda in un passaggio del testo).
Il ragazzo è giovane ma il suo futuro sembra già scritto. E si sente benissimo nell’altro pezzo autografo dell’album, intitolato non a caso “Song to Woody”, in cui Bob si rivolge direttamente al suo padre spirituale, uomo di mille lotte e di mille viaggi, simbolo di un’America che non si accontenta di vivere nel sogno, vuole costruirselo addosso.
E questo è quello che vuole il giovane Dylan dalla sua vita (“L’ultima cosa che vorrei dover fare sarebbe ammettere che anch’io in fondo ho viaggiato male”) ancora solo e sperduto nella grande metropoli, senza i compagni di viaggio che ricorda per Guthrie (Cisco Houston e Leadbelly), ancora musicalmente immaturo, ancora non completamente autore. Ma deciso sul da farsi.