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Thomas Fersen da poco più di una decina d’anni riveste un ruolo importante e originale nella scena musicale francese, ambito internazionalmente molto à la page grazie a gruppi come Air, Ginger Ale, Phoenix, Daft Punk, i quali hanno peraltro scelto un mezzo espressivo, la lingua inglese, altamente più codificabile dal giovane utente europeo o extra. Il “fenomeno” Fersen è per ora invece inscrivibile al solo territorio transalpino: egli si rivolge ai suoi compatrioti attraverso un francese talmente ricco, letterario ed insieme popolare che molta critica non ha esitato a paragonarlo nientemeno che a Jacques Prévert… Una storia très française insomma, che proveremo in sommi capi a raccontare.
Di nascita parigina, precisamente nel popolare e meticcio XX° arrondissement, egli incanala i primi istinti musicali nei furori punk che giungono riflessi da oltremanica: nel frattempo prende anche un diploma scientifico, perché non si sa mai… Inquieto e curioso, il giovane Thomas mette alla prova sé stesso in alcuni lunghi viaggi: fatale per lo sboccio creativo è un soggiorno di molti mesi in Norvegia, dove comincia a produrre una considerevole quantità di canzoni. Il ritorno a casa coincide con una voglia perentoria di vivere consapevolmente questa condizione di artista, voglia che gli permetterà di sopportare anni durissimi di gavetta, esibizioni per pochi e distratti avventori in scantinati di ristoranti tailandesi che forgeranno lo stile e la nonchalance che diverrà cifra stilistica peculiare del Nostro. L’incontro con un vecchio amico diventato un pezzo grosso all’interno della WEA francese gli procura il primo contratto discografico: nel 1993, a 30 anni, esce “Le bal des oiseaux”, osannato dalla critica. Da quel momento, ogni due anni, puntualmente, Fersen delizia il proprio pubblico, sempre più vasto e fedele, con un nuovo capitolo tratto dal suo ragguardevole immaginario musical-letterario.
“La Cigale des grands jours” può essere un’esemplare introduzione al mondo sospeso tra finzione e realtà che popola l’arte ferseniana, alla sua passione per gli animali, per i vegetali, per la pasticceria e per l’alimentazione in generale, per l’essere sempre un po’ dandy e dunque al di là delle mode passeggere e variamente futili. Registrato in due serate a “La Cigale”, celebre locale della Ville Lumière, l’album ripropone quasi tutti i pezzi del precedente lavoro in studio, lo straordinario “Pièce montée des grands jours”, con in aggiunta alcune chicche prese dal repertorio già piuttosto corposo dell’artista.
L’abbrivio è folgorante: “Deux pieds” è un rock indolente che paga qualche giusto debito a Sua Maestà Jacques Dutronc (per giunta, ecco un altro pluriosannato in patria e misconosciuto oltre la linea Maginot), un rock pigro ma pieno di corpo, quasi un pugno allo stomaco al ralenty. Con “Diane de Poitiers” siamo già in piena definizione del Fersen style, una somma di filastrocche, di rimandi alla chanson française classica, di vaudeville, di brevi nuvolette jazz, di sprazzi di esotismo nordafricano, di furori balcanico-caucasici, di spensieratezze pop molto 60’s. “Les cravates”, per esempio, è un vero capolavoro in bilico tra Kinks, country e marcette anni ’30, un’escursione irresistibile tra cravatte a pois o in tinta unita che sembrano quasi inamidarsi per trasformarsi in coltelli che si rigirano tra le carni dei nostri splendori e delle nostre miserie. La classicità fa capolino in “Né dans une rose”, meraviglia poetica e sonora, in precario e miracoloso equilibrio con il déjà vu, che genialmente neanche mai sfiora. E che dire di “Borborygmes”, scarna rappresentazione di un rapporto di coppia fatto di orifizi sibilanti e aliti pesanti, incorniciata all’interno di una melodia desolata, arida, dove la tragedia della routine viene salvata solo dal disincanto.
Prima di arrivare a “Les malheurs du lion”, finale coraggiosamente intimo e sottotraccia (è pur sempre un live!…), si passa attraverso grandi cavalcate dal sapore est europeo (“Bucéphale” e “Saint-Jean-du-Doigt”), furiosi crescendo dove s’immaginano formidabili cavalieri cosacchi galoppare furiosi sugli Champs Elysées, come se la spugna Parigi, una volta strizzata, potesse riportare in vita ogni lontana storia di tutte le genti che l’hanno progressivamente popolata. Thomas Fersen sembra avere la giusta dose di genio e sensibilità per potere spremere umori e racconti dalla sua città-spugna: per questo noi gliene saremo riconoscenti.