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A qualche decina di chilometri dalle coste toscane, geograficamente ben più vicina al centro dell’Europa e al cuore dell’Italia terziario-industriale di quanto lo siano Sardegna e Sicilia, si erge dal mare un mistero chiamato Corsica. Un’isola, l’isola. Generalmente dimenticata. La sua immagine è sovente cancellata dalle cartine delle previsioni del tempo italiane, in quelle francesi è relegata là, in un riquadro, o forzatamente spostata per questioni patriottico-spaziali a un passo da Nizza. Invece no, Kallisté – la bellissima, come la chiamarono i greci, che di isole dovevano averne già viste parecchie… – è da millenni piantata lì, poche miglia a nord della Sardegna, quattro ore da Livorno, eppure lontanissima, arcana, incomprensibile, misteriosa. Enigma che invece di risolversi si fa più profondo e intrigante nel momento in cui si tenta l’approccio diretto e ci si immerge nella sua natura, nell’assenza di autostrade, nei silenzi e nei profumi della macchia, nei picchi ventosi di Dolomiti insulari, nell’orrore di un lenzuolo macchiato di sangue, nel brivido esclusivo e virile di una stretta di mano.
“Una tarra ci hè”, oltre ad essere musicalmente ineccepibile, esprime con straordinaria intensità le molteplici facce del popolo corso, l’amore e l’orgoglio per la “patria”, i dubbi e le lacerazioni figlie di divisioni interne plurisecolari e di troppi conquistatori, le timide quanto presenti aperture verso l’esterno, l’importanza delle tradizioni scandite dalle stagioni. Jean Claude Acquaviva (Ghjuvan-Claudiu, come scritto nei credits) è da più di vent’anni, insieme a I Muvrini, il leader della rinascita musicale e culturale dell’isola. In una terra devastata dall’emigrazione, dal trapianto socio-linguistico francese e da un terrorismo nazionalista impastato di antichi codici d’onore (la vendetta!), Acquaviva riprende l’antica arte della polifonia (piuttosto affine a quella dei vicini sardi), scegliendo il corso contemporaneo (una sorta di toscano-pisano medievale dal fascino indicibile, un tangibile salto temporale) come mezzo espressivo e di esibita autonomia, senza mai perdere di vista una realtà che vede l’Ile de Beauté legata alla Repubblica Francese da più di due secoli. Dal grande lavoro di semina de A Filetta e de I Muvrini è germogliata una generazione interessantissima di musicisti e coristi, affamati di tradizione, molteplici vettori culturali esterni ad ogni becero separatismo, funzionali a una base culturale autonoma.
“Una tarra ci hè” è un’opera seria, rigorosa, altamente ispirata. Le musiche originali di J.C.Acquaviva sembrano arie tradizionali per quanto sono capaci di rendere emotivamente l’essenza isolana. “E’ puru simu qui” è un’apertura esemplare, la sua intrinseca malinconia rinvigorisce in un incedere marziale in crescendo, un piccolo Nabucco pieno di orgoglio, una dichiarazione di appartenenza che fa scattare sull’attenti. “Una tarra ci hè”, altrettanto impastata di amore per la Corsica, è un inno molto più introspettivo e sussurrato, di bellezza struggente (“…per voi c’è una terra di mare, invasioni, deserto, una terra che si dà solo quando cedono le dighe dell’indifferenza.”). La “Paghjella di l’impiccati” e “Trè” sono alti esempi di polifonia, ambedue intense, composte, rigorose, dove ogni voce sembra un’ombra minacciosa. Sulla stessa linea stanno “So l’omu”, “U lamentu di Maria” e “L’ombra murtulaghju”, che valorizzano la strepitosa coesione vocale dell’ensemble, formando cattedrali sonore di rara suggestione ed evocando una Corsica interna, ventosa, montanara, la montagna in mezzo al mare che non si farà mai conoscere abbastanza all’uomo d’Oltremare.
L’altro lato della medaglia vede impressi squarci di assoluto lirismo. “Fiure”, “A muntagnera”, “A’ l’acula di Cintu”, “Da grande”, sono canzoni incontaminate, di enorme potere evocativo, che rivaleggiano in bellezza con quelle del De Andrè sardo-genovese. I profumi, le brezze, gli amori, le speranze, le stagioni, ogni immagine e sentimento ha radici rugose e straripanti in quella terra così difficile da domare. “Eo sai” è l’ultimo colpo al cuore del disco, un capolavoro di intimistico pathos, struggente come quando ci si lascia alle spalle il porto di Bastia. Alla fine non resta che un violino accennato, appena saltellante, una sublime malinconia sofisticata: c’è Corelli, tra i silenzi in Castagniccia.