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Se questa fosse la trascrizione di un’arringa della pubblica accusa, inizierebbe chiamando in causa il giudice interiore al quale riconosere che i Mastodon con “The Hunter”, prodotto da Mike Elizondo, sono accusati del non virtuoso riciclo di soluzioni vecchie, imputazione di gran lunga più pesante dell’essersi normalizzati, sganciando e saccheggiando particelle della propria inventiva passata con l’intenzione di riproducibilità di se stessi che atrofizza la superba radice di “Leviathan” (2004) e “Blood Mountain” (2006), e degenera in marcescenza fosforescente ciò che resta delle visioni suscitate in “Crack The Skye” (2009).
Ma è necessario fermarsi e riconoscere in un secondo grado di giudizio, che il mercato amerà questo quinto ficcante e incisivo album dei Mastodon, e perché no poi? In effetti hanno dato fondo a tutto il loro armamentario musicale, hanno mischiato il contenuto storico e contemporaneo del rock e alla loro maniera spiazzante hanno prodotto 13 bei pezzi che disperdendosi e spargendosi verso tutte le direzioni possibili disorientano e mascherano la carenza di idee. Geniale, no? E poi si tratta di un lavoro nel quale è piacevole riscontrare sonorità che ricordano da vicino i tardi Led Zeppelin di “Houses Of The Holy”, di cui riprendono il medesimo tono sacrale necessario ad animare, attraverso l’inspessimento del suono, una sorta di ritualismo tribale del mondo arcaico, alluso nel titolo e nella violenta immagine bovina della copertina.
“Black Tongue” è il brano carta d’identità, una stupenda apertura che esalta la capacità “mastodontica” di creare un nuovo genere di epica, una direzione omogena e granitica subito deviata dal brano più controverso dell’album, “Curl Of The Burl” heavy-stoner che si sazia alle fonti dei ’70 e che preannuncia la virata hard-rock incarnata nel successivo “Blasteroid” (che ricorda molto i Torche) e più avanti, con volontà più centrata, in “Octopus Has No Friend” dal chorus cantabile e felicemente radiofonico. Segue “Stargasm” una irriconoscibile sludge song puntellata da emersioni di mellotron, relitti di “Crack The Skye”, e dal drumming poderoso del tonitruante Brann Dailor; “All The Heavy Lifting” è un’altra aggressiva manipolazione delle particelle gravitanti di “Crack The Skye” più ennesimo chorus assassino. La title track “The Hunter” dalla venatura southern rock è una nenia funebre dal dolore trattenuto, una lamentazione alla maniera di Neil Young, dedicata al fratello, morto durante una battuta di caccia, del chitarrista Brent Hinds.
Dopo, come cambiando side di un Lp, ci troviamo di fronte ad un lotto più innovativo. Si riparte con “Dry Bone Valley” che spiana la strada all’influenza dei Queens Of The Stone Age fin qui tenuta a bada, e che esplode più che mai nelle movenze canore e carezzevolmente molli di “Thickening”, ammirabilmente pacchiana. “Creature Lives” omaggia il fumetto The Swamp Thing e i Pink Floyd con la risata campionata che si ripete nell’intro elettronico, e che figurativamente anticipa un sarcasmo cattivo mascherato da ballata buonista; quasi alla fine è il turno di “Spectrelight” che propone un tardo-stoner imbastardito da post-metal, con tanto di cavalcata à la Baroness, e che si pietrifica nell’intervento quanto mai provvidenziale di Scott Kelly (Neurosis, Shrinebuilder) che apre la voragine sempre elusa del problema ormai da affrontare, cioè l’assenza di una lead vocals che si rispetti; “Bedazzled Fingernails” rafforzata dalla voce effettata (assai ricorrente in questo lavoro) è uno stranito brano controtempo fatto a mestiere (interviene persino un sorprendente theremin), che si scioglie nell’ennesimo chorus liberatorio, dal tempo giusto per restare impresso senza pervadere e scadere. Conclude il lotto e l’album “The Sparrow” affascinante miscuglio che liricamente unisce psichedelia e pop. Colpo magistrale per chiudere con molti interrogativi.
Album dunque AOR nella sua essenza più dura e proclamato stilisticamente in ogni brano; ma anche album del tardo impero che, delle epoche tarde e delle ispirazioni che sconfinano nella tarda maturità, possiede le qualità: la consapevolezza dei propri mezzi, che sono a dir poco illimitati, e il fatto che possa permettersi di crescere lentamente con l’ascolto, privo com’è di classici e della hit “per sempre”. Ma carico purtroppo anche dei limiti di una senilità che si confonde stancamente nella caligine del crepuscolo, prima di entrare con gloria e onore nel mainstream metal.
65/100
(Stefania Italiano)
26 ottobre 2011