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Dubitare, per un folle, è un atto automatico, meccanico e inevitabile, così come lo è il farsi travolgere dai contrasti, dalle contraddizioni del reale. Senza indugiare nel sociologico, accade la stessa cosa anche nelle dieci canzoni di “Hamletmachine”, il secondo album di Good Morning Boy: mentre molti scelgono di nascondere le proprie reali emozioni dietro ai volumi o ai suoni, Marco Iacampo lascia i propri pensieri nudi, indifesi, sottesi da una musica minima, spoglia eppure più omogenea e pulita rispetto all’esordio di due anni fa.
E così, le canzoni sembrano reggersi in piedi su una delicatissima architettura di contrasti; se nelle ghost-track iniziali si sfoga tutta l’energia e il sentimento positivo in irresistibili strutture pop, subito dopo veniamo introdotti in un mondo dove ogni cosa ha bisogno del suo opposto per esistere, e tutto è incerto: “So fine” racconta di dubbi (“A volte può andare così bene, e a volte ti può condurre al crimine”, recita il testo) su eleganti raddoppi di chitarre, “Starlight” immerge il folk in un lontanissimo mare di stelle, mentre l’incedere traballante di “Cobwebs in the air” viene violentato a metà da un inserto al limite del noise, la voce trasformata in un lamento straziato.
E ancora, le richieste di aiuto di “Hit me with the water” cozzano contro un pianoforte dapprima accarezzato, poi percosso con violenza; “June is a whore” e “Who are you?” mostrano il lato più solitario e buio di una risalita, e la luce ritorna sulle note della canzone americana invocata in “After all it’s summertime”, e nel sorriso disilluso, forse sollevato, del passo svelto di “All is falling”. Proprio così: l’atmosfera diventa serena, proprio mentre ci si rende conto che tutto cade. “Hamletmachine” è un disco molto diverso da quello che lo ha preceduto: non ne ha il brio, la varietà musicale, quell’adorabile estetica lo-fi che donava molto alle canzoni di Good Morning Boy; ma è molto più profondo, meno debitore verso i propri modelli, e trasuda sincerità da ogni nota.
Strano che non stia ottenendo il clamore che merita, perché “Hamletmachine” è un disco bellissimo, che sa estrarre bellezza dalla follia e dal dolore. The madcap laughs, titolava qualcuno. A distanza di molti anni, qualcun altro ha messo in pratica. Meravigliosamente.