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E intanto Nick Talbot non sbaglia un disco. Potrebbe essere questo un buon modo di introdurre l’ultimo parto discografico della compagine (in realtà poco più di un duo) guidata dall’irrequieto compositore britannico, che giunge a due anni di distanza dal celebrato “Fires In Distant Buildings”, disco della cosiddetta “svolta elettrica” e, secondo il parere molto accorto di alcuni, in chiarissimo odore di capolavoro. La ricerca non può comunque fermarsi e in questo nuovo “The Western Lands” si prosegue così lungo la via di un ulteriore e più sensibile perfezionamento di stile.
Il risultato che ne deriva è, oltre ogni previsione, semplicemente sopraffino. I territori in cui Talbot si muove rimangono in sostanza quelli di un folk sgranato in punta di chitarra e di lingua, più vicino alle liturgie segrete di un Bonnie “Prince” Billy, di uno Sparklehorse medio o al limite di Iron and Wine (non quello, mirabile, sentito di recente però, più impregnato di umori vagamente tropicaleggianti) e abbastanza distante dal vitalismo neofricchettone di Devendra Banhart e compagnia canticchiante. Il disco precedente lascia tuttavia in eredità a questo suo successore un guscio sottile di chitarre elettriche che tende ad avvolgere nella sua corteccia increspata le sfuggenti pennate con cui Talbot intaglia il suo flusso di visoni passeggere, in equilibrio tra i cieli mutevoli di Bill Frisell e il picking in trance sciamanica di Ben Chasny (versante Six Organs Of Amittance). Qualcuno, forse attirato dal marchio Warp, ha anche parlato di post-rock, ma sarebbe probabilmente più opportuno appoggiarsi provvisoriamente ad una definizione di sicuro infelice ma più vicina al vero come post-folk o folk ambientale, talvolta tentato da qualche timido accenno di progressione cinematica (se ne trovano di molto belle ad esempio nell’eponima “The Western Lands”, in cui quel “western” allude forse a vaghe reminescenze di frontiera -come un Morricone pensoso sulle scogliere a strapiombo della Cornovaglia-, o nel secondo movimento di “Grand Union Canal” e nella finale “The Collector”) ma quasi sempre più o meno saldamente ancorato ad una struttura-canzone che non esaurisce mai del tutto la propria forza di aggregazione interna (e in questo senso la presenza della voce gioca un ruolo di certo fondamentale).
Nell’imperturbabile pace contemplativa e nell’ascesi a tratti quasi monacale delle sue composizioni (ascoltate “Song Among The Pine”, una sorta di mantra spiraliforme o preghiera solitaria), Talbot riesce così a regalare una serie di piccoli capolavori di tenue crepuscolarismo fumiste, come “Trust”, “Farewell, Farewell” e soprattutto “Hourglass”, increspata in un gioco di specchi e melodie concentriche che si moltiplicano come le prospettive in una pozzanghera sfiorata dal vento. E in fondo proprio il paesaggio (quintessenzialmente inglese) e le forme naturali giocano un ruolo tutt’altro che secondario nella definizione di un suono che sembra quasi accordarsi al respiro di sterminate distese di ghiaccio addormentato, al lento agitarsi di alberi secchi nel letargo di un autunno interminabile, alla luce che si rifrange di rimbalzo sulla rugiada di un bosco per qualche istante fugace. Si sarà insomma capito (anche se il rimando non è così frontale, per quanto facilmente avvertibile) come questo ultimo Gravenhurst condivida più di qualche tratto decisivo con lo shoegaze e con i personaggi (in fondo grandi perdenti della storia del rock) della sua epopea, soprattutto quelli più legati ad un’estetica “4AD”, caratterizzata dalle trasparenze di un suono etereo e a tratti acquoso come la luce incerta di un acquerello, basti pensare a gente come Pale Saints o anche Slowdive. Per certi aspetti poi, ma non prendetemi troppo alla lettera, sembra quasi di ascoltare la risposta inglese ai National. In ogni caso, un disco per ascoltatori pazienti.